FERRARA—Nel pomeriggio di sabato 1 ottobre 2016 al Teatro Comunale si è svolto, in occasione del Festival di Internazionale, l’incontro “I rischi di informare.”

Camilla Desideri, che si occupa di America Latina per la rivista romana, ha intervistato Anabel Hernández, giornalista messicana, Alberto Barrera Tyszka, scrittore e giornalista venezuelano, e Roberto Valencia del giornale indipendente El faro.

Assieme ai tre giornalisti sono state trattate, nello specifico, le condizioni in cui vivono e lavorano i giornalisti in Venezuela, Messico ed El Salvador e, in generale, la crisi della libertà di informazione che domina tutto il Sud America.img_20161001_151819Messico

Anabel Hernàndez è una giornalista messicana che nel 2010 ha indagato i rapporti tra i cartelli messicani e gli organi statali, messi nero su bianco nel libro La terra dei narcos. Dalla pubblicazione del libro-inchiesta ha vissuto sotto scorta negli Stati Uniti e solo da un mese è tornata in Messico.

Anabel ha sottolineato la gravità del problema dell’informazione nel suo Paese, dove molti  dei suoi colleghi sono stati  minacciati, imprigionati, o torturati

“Tutti sono minacciati, non solo i giornalisti. I cartelli uccidono tutti, come ci insegna la sparizione dei 43 studenti ad Ayotzinapa.”

Il problema è endemico del Messico, che ha da un lato il governo distrutto dalla corruzione e dall’altro i cartelli — insieme hanno creato dei buchi neri, della falle dall’epoca post-rivoluzionaria ad oggi

“Questi due grandi poteri non vogliono che in Messico ci sia libertà di espressione.”

Il pericolo in cui incorre la libertà di espressione in un sistema fortemente repressivo come quello messicano è l’auto–censura dei giornalisti stessi. Dove non arriva il sistema repressivo intrecciato tra Stato e cartelli arriva la paura.

Questo è il ritratto della libertà di stampa e di informazione del Messico: non esiste.

L’importanza della libertà dei cittadini di essere informati è strettamente legata alla democrazia: si tratta di un diritto basilare che permette al cittadino di prendere libere decisioni. La crisi della libertà di espressione è inevitabilmente crisi della democrazia messicana.

La situazione si è aggravata quando le pressioni internazionali hanno spinto il Messico ad adottare un decreto che protegge i giornalisti: è stata approvata ad hoc una legge perfetta per i diritti che offre alla stampa messicana — ma è solo una legge formale, che non ha nessuna applicazione pratica.

L’emblema di come questa legge abbia fatto solo danni è rappresentato proprio dalla storia Anabel Hernandez, che vive protetta, blindata, ma di fatto sorvegliata dal governo.

“Vivo ricevendo continue minacce di morte, per aver rivelato e documentato i nessi tra il governo messicano e il Cartello di Sinaloa. Le mie fonti sono state uccise, io e la mia famiglia abbiamo subito attacchi orribili e gesti di intimidazione.” Cercando di indagare sugli attacchi ricevuti, Anabel non si è sorpresa di trovare tra i mandanti i vertici dell’esercito.

El Salvador

Anche in Salvador la situazione si ripresenta: un Paese violento, dominato da impunità e corruzione.

Roberto Valencia scrive per El Faro, nato nel 1998 all’indomani della guerra civile, all’alba del governo di estrema destra di Elìas Antonio Saca; un giornale indipendente che cerca di farsi spazio tra le pieghe di un sistema altrettanto repressivo di quello messicano.

Si è occupato a lungo del fenomeno delle gang salvadoregne, un fenomeno profondamente radicato nella società del Paese.

“Le gang non sono nate in Salvador, ma negli Stati Uniti più di 50 anni fa, precisamente in California.”

“Quando l’allora presidente Clinton ha rimandato indietro tutti i salvadoregni irregolari e con precedenti penali, il Salvador è stato invaso dalle gang che si sono poi evolute negli ultimi 25 anni nella società salvadoregna.”

Si calcola che siano circa 60mila i membri attivi nelle gang tra la popolazione, ovvero l’1%, ma lo strato sociale a cui appartengono è ben più ampio e dunque il dato sale fino al 9%.

Il fenomeno delle gang presenta un doppio problema: se da un lato sono il principale motivo di violenza tra gli strati più poveri della popolazione, dall’altro hanno provocato una forte repressione da parte dello Stato, che fa esecuzioni sommarie presentate all’opinione pubblica come scontri tra i ribelli, e così la repressione viene percepita come giusta dalla popolazione.Venezuela

Un altro Paese in cui la crisi e la violenza hanno creato forti limitazioni alla libertà di informazione è il Venezuela.

A causa di un’economia sbagliata fondata quasi esclusivamente sull’esportazione di petrolio, all’indomani del crollo del greggio una grave crisi sta provocando forti rivolte e indignazione da parte dei cittadini, che il 2 settembre sono scesi in piazza chiedendo che venga indetto un referendum per deporre il presidente in carica, Nicolas Maduro.

I beni primari stanno scomparendo e l’inflazione raggiungerà entro la fine dell’anno il 1000%.

Le proteste vengono stroncate sul nascere dall’esercito: secondo Human Rights Watch nel 2016 sono stati 60mila i membri delle forze militari utilizzati per  deportazioni forzate e arresti arbitrari. Tra le vittime ci sono naturalmente  anche i giornalisti.

“Con un decreto, Maduro ha permesso ai militari di reprimere le manifestazioni: questo ha provocato una progressiva naturalizzazione della violenza affiancata dall’opacità delle notizie.”

Grazie ai report delle Ong attive in America Latina, sappiamo che nel 2015 ci sono stati 22mila morti.

In società come quella  messicana, salvadoregna e venezuelana, la situazione in cui vertono gli organi di stampa è critica perché la repressione violenta è spesso presentata “criminalizzando” le vittime: i giornalisti spariscono in continuazione, ma vengono presentati all’opinione pubblica come nemici della rivoluzione e traditori, quindi il popolo continua ad accettare l’informazione opaca, i buchi neri e la democrazia marcia di Paesi in cui la capacità di scelta è manipolata dal governo e dai cartelli.