Bruxelles — Tempi difficili per l’Europa Unita, troppo frammentata e inerte per affrontare di petto la questione migranti: non più emergenza temporanea ma macro-fenomeno con effetti di lungo termine, che mette in discussione le fondamenta stesse del progetto politico comunitario. Il vertice di Bratislava dello scorso 16 settembre, conclusosi con una significativa spaccatura tra Renzi e Merkel, ha visto sfumare tra i Paesi membri la possibilità di ragionare su un piano condiviso e attuabile in materia di accoglienza, almeno per il momento.
Risultano vane, in questo senso, le parole di Obama al recente vertice dell’ONU sui rifugiati, in cui ha fatto appello alla comunità internazionale perché vengano mantenuti gli impegni presi sulle politiche di asilo. «Pretty speeches», commenta, amareggiata, Ska Keller, europarlamentare dei Verdi. «Bei discorsi, che non porteranno a risultati effettivi. Speravamo che in quell’occasione i rappresentanti dell’Ue presentassero una proposta politica. Un’occasione sprecata».
In realtà un piano ci sarebbe, varato dal Consiglio Europeo il 22 settembre 2015: il cosiddetto relocation plan, che prevede il trasferimento e la redistribuzione di quote di rifugiati (160mila in totale) dall’Italia e dalla Grecia verso il resto dell’Europa. Peccato che da marzo, con l’entrata in vigore dell’accordo tra Ankara e Bruxelles, i trasferimenti siano stati bloccati e le quote in questione siano state indebitamente incluse nel programma di reintegro in Turchia.
Proprio su questo punto i Verdi hanno fatto battaglia presentando un report in Parlamento. «Abbiamo riscosso il consenso della maggioranza, dalla sinistra ai liberali, dai socialdemocratici fino a una parte dei conservatori. È un segnale forte contro l’accordo con la Turchia, ma purtroppo, essendo un report consultivo, non avrà conseguenze dirette». Già, perché, nonostante il tasso degli sbarchi sulle coste greche sia tornato a crescere e il sistema degli hotspot stia mettendo in ginocchio le isole dell’Egeo orientale, la Commissione Europea continua a rivendicare la propria politica migratoria come un successo.
Martedì 27 settembre la sede di Bruxelles del Parlamento Europeo ha ospitato la mostra fotografica “Reaching Europe – Refugees arriving on Lesvos”, promossa da Ska Keller e dal collega Jan Philipp Albrecht. Giusto sette giorni prima, la notizia dell’incendio divampato nell’hotspot di Moria, a Lesbo, con un bilancio di circa 4000 sfollati, riportava al centro dell’attenzione (seppur per pochissimo tempo) lo scenario travagliato delle isole greche, trasformate da ponti verso l’Europa in centri di detenzione. «In Europa si parla di questa crisi come una minaccia ai valori cristiani» ha dichiarato Albrecht, «ma l’unica minaccia è questo concetto di Fortress Europe, Europa come fortezza, un concetto che nega la dignità alle persone che vengono a bussare alla nostra porta».
Il vernissage, che ha visto la partecipazione degli autori delle fotografie, di alcuni rifugiati siriani accolti in Belgio, e della giornalista Barbara Gigilini di Politika Lesvos, è stata un’occasione per tracciare un bilancio sulla spinosa questione. Dahham Alsould, medico siriano giunto a Lesbo l’anno scorso via mare, ha ricordato che lasciare la Siria è stata per molti suoi connazionali una scelta obbligata, e mai a costo zero. Nel suo caso ha significato anche abbandonare una professione, poiché in Belgio le sue qualifiche non possono essere riconosciute equipollenti a quelle dei medici europei, rendendo l’integrazione una corsa ad ostacoli.
«Lesbo è stata una terra di migrazione durante tutta la sua Storia, ma la guerra in Siria è un caso a parte: dal 2012 sono arrivati sull’isola 600mila rifugiati», ha raccontato Michael Bakas, fotografo e attivista politico, che ha documentato con il suo lavoro gli sbarchi sull’isola nel 2015. «Spesso mi sentivo in difficoltà a rimanere impassibile dall’altra parte dell’obiettivo, ho preferito andare a dare una mano».
«Ciascuna delle nostre foto rappresenta una storia diversa, la storia di un essere umano, le sue particolari emozioni provate nel momento dell’approdo», ha spiegato Stratis Tsoulellis, presidente del Photo Club di Mitilini.
«Talvolta i gommoni approdavano a molti chilometri dal centro di Mitilini. Mamme e bambini piccoli al seguito erano costretti a percorrere tutta quella strada a piedi, così abbiamo deciso di trasportarli con le nostre macchine, anche se la legge greca lo proibisce: pena il carcere».
La mostra, che ha già ricevuto ottime recensioni ad Atene, Cipro e Creta, è una preziosa testimonianza di un angolo di Europa abbandonato a se stesso. La speranza è che quelle foto, appese nei corridoi delle istituzioni comunitarie, riescano a smuovere la coscienza di chi potrebbe fare la differenza.