Garlasco: chi ha paura del maresciallo Marchetto?
Condannato a due anni e mezzo il maresciallo Marchetto per falsa testimonianza. Ma è per un tecnicismo: le accuse prendono sostanza solo perché il caso, sostanzialmente, è ancora troppo fumoso.
“Il processo Stasi è stato un aborto—” la difesa del maresciallo Francesco Marchetto è durissima davanti al giudice Daniela Garlaschelli, che un’ora dopo condannerà il maresciallo a due anni e mezzo di reclusione e a una provvisionale di 10mila euro di risarcimento alla famiglia Poggi.
A Pavia, il 23 settembre 2016, si chiude il primo grado del processo Marchetto e più o meno volontariamente si riapre il caso del delitto di Garlasco, a cui è strettamente intrecciato. Marchetto è stato condannato per falsa testimonianza: nelle sue dichiarazioni ci sono alcune piccole incongruenze su un elemento chiave nella dinamica del delitto Garlasco, la famosa “bicicletta nera.”
Presenti all’udienza, oltre a un pugno di giornalisti, anche la famiglia Poggi, parte offesa del processo, che oggi per la prima volta si vede riconosciuto un risarcimento della tragedia — seppur non dal colpevole, e di quantità irrisoria.
È una giornata soleggiata di settembre. L’udienza si tiene in un angolo quasi abbandonato del Palazzo di Giustizia di Pavia: fuori il muro è coperto da larghe pezze bianche.
Dopo la sentenza, tutti — il pm Roberto Valli, ma anche l’avvocato Gian Luigi Tizzoni, rappresentante della famiglia Poggi — inevitabilmente ripropongono la propria versione degli eventi relativi al 13 agosto 2007, quando Chiara Poggi venne uccisa nella propria casa a Garlasco. Ricostruzioni del tutto personali, perché a distanza di quasi 10 anni molto poco è ancora chiaro riguardo alla tragedia — e sono le stesse parti in causa a dirlo.
Durante il processo Marchetto, infatti, l’avvocato Tizzoni – rappresentante della famiglia Poggi – si è trovato quasi costretto a elencare le tante debolezze processuali mentre sottolinea l’importanza della — falsa? — testimonianza del maresciallo accusato. La difesa, al contrario, deve dimostrare come, nel mare di errori e mancanze commesse durante le indagini, il reato di cui è accusato il maresciallo, ora in pensione, non sussiste.
Torniamo al 13 agosto 2007.
Francesco Marchetto sta rincasando dalle ferie e arriva a Garlasco nel primo pomeriggio. L’omicidio, violento e incomprensibile, sconvolge il paese e scuote la stazione dei carabinieri locale. Stasi è nell’edificio e le indagini sono appena iniziate.
Marchetto si dirige immediatamente a casa Poggi, mentre solo in un secondo tempo al comando. Cosa abbia fatto, una volta arrivato a Garlasco, è proprio la causa della sua accusa.
Una volta in stazione, il maresciallo testimonia di aver fatto un giro per salutare i sottoposti e iniziare a valutare meglio la situazione. Assiste brevemente all’interrogatorio di una testimone — tale signora Bermani — che descrive di aver visto una bicicletta nera nella via di casa Poggi.
In una prima deposizione durante il processo Stasi, Marchetto sottoscrive pienamente il verbale del brigadiere Pennini, dicendo di essere stato presente all’interrogatorio. In seguito, riformula dicendo di essere stato presente per qualche minuto, e poi per “un minuto.”
Il brigadiere Pennini, al contrario, sostiene che non sia stato presente neppure per un istante.
Ciononostante, Marchetto per certo è a conoscenza dei contenuti della testimonianza della signora Bermani: la mattina dopo, come prima cosa, si reca presso le Officine Stasi del padre di Alberto, proprio per cercare la famosa “bici nera.”
Una bicicletta nera da donna, che però non corrispondeva esattamente alla descrizione che il brigadiere Pennini aveva raccolto solo ore prima, in effetti c’era, alle Officine Stasi. Marchetto però non la requisisce — la bicicletta aveva un cestino anteriore e non aveva le molle del sellino cromate, forse l’elemento messo più a fuoco nella deposizione della signora Bermani.
Nei giorni successivi, e dopo altre due decreti di perquisizione che mancano di rilevare la bicicletta, la situazione cambia. Gli inquirenti non riescono a trovare prove, si fatica a costruire un movente per qualunque sospettato, non c’è nessuna arma del delitto.
La bicicletta, la cui descrizione intanto è leggermente ma sostanzialmente cambiata nel verbale di un secondo interrogatorio, diventa essa stessa l’arma del delitto — l’unico appiglio in cui sperare per trovare una soluzione al mistero di Garlasco. Alla fine viene requisita, e diventa uno degli indizi centrali usati per incriminare Alberto Stasi.
Ma in che modo la testimonianza di Marchetto avrebbe deviato il naturale percorso processuale?
Il percorso giudiziario di Stasi, prima assolto con rito abbreviato, in primo e secondo grado, sentenze poi annullate dalla Corte di cassazione nella primavera 2013, è complesso e difficoltoso.
Le assoluzioni vengono annullate e ordinati esami del DNA su un capello ritrovato nelle mani di Chiara Poggi — di cui non si era a conoscenza durante il primo giudizio, e residui sotto le unghie, reperiti ma mai analizzati. Con gli indizi presentati, dichiara la Corte, “è difficile pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza.”
Tuttavia, il capello risulta essere senza bulbo — la parte che contiene DNA — e gli altri residui sono riconducibili sì a DNA maschile, ma sono inconcludenti perché troppo deteriorati. Il processo deve così ripartire da capo, senza importanti novità.
È in questo contesto che la bicicletta nera assume questa importanza fondamentale — davvero quasi arma del delitto: è necessario che la bicicletta poi requisita sia proprio quella vista dalla signora Bermani perché la ricostruzione del caso stia in piedi. La condanna allo Stasi bis, sostanzialmente senza nuovi indizi e che manda in galera Alberto, lascia il caso completamente aperto alle richieste della difesa — che pretende un nuovo processo, citando direttamente la dichiarazione della Corte di cassazione.
Il pm e l’avvocato Tizzoni, che pure volevano separare fortemente questo processo dal caso Poggi, si affrettano invece ad adombrare accuse molto più gravi nei confronti di Marchetto fino a parlare di favoreggiamento, teorizzando che l’incontro alle Officine Stasi fosse stato organizzato per intralciare le indagini.
Dall’altra parte, la difesa abbraccia una narrazione più ampia e descrive il tentativo di trovare un “capro espiatorio” per le ripetute difficoltà da parte della giustizia di trovare il colpevole dell’omicidio — non solo, l’apertura delle indagini per falsa testimonianza ha impedito a Marchetto di deporre allo Stasi bis.
La difesa di Marchetto sottolinea differenze macroscopiche della bicicletta degli Stasi rispetto a quella descritta dalla Bermani — facendo particolarmente riferimento al voluminoso cesto di vimini che la bicicletta aveva sulla ruota anteriore, che non è citata in nessun modo nella prima deposizione della signora.
Come il caso si colleghi al processo Stasi è, in conclusione, paradossale: la parte offesa si appella a un’incongruenza sulla presenza del maresciallo a un interrogatorio di cui deve per forzaessere stato informato subito, per poter aver agito di conseguenza il mattino dopo. In questo contesto è necessario portare avanti ipotesi — senza prosecuzione giudiziaria — di favoreggiamento. La difesa, composta dagli avvocati Paolo Larceri e Roberto Grittini, al contrario, non mira in nessun modo a screditare la deposizione raccolta dal brigadiere, ma mette in dubbio la validità della memoria della signora Bermani.
Il maresciallo Marchetto finisce per essere condannato per quella che è nella peggiore delle ipotesi un tecnicismo — è stato nella stanza con Pennini e Bermani “qualche minuto” o “un minuto”? —, ma che si porta con sé il peso enorme di un caso che per nessuno è concluso con soddisfazione.