Fuck il pensiero positivo

Internet è per la prima volta nella Storia un posto dove si può essere pubblicamente depressi, dove si può discutere della propria condizione con altre persone — anche con una semplice GIF.

Non passa giorno senza che qualche esperto, qualche personalità, non condivida la propria opinione su quanto “male” stia facendo internet.

I tormentoni diventano così legati alla depressione, i social network possono diventare luoghi “oscuri e pericolosi,” e mettono a rischio ogni aspetto della propria vita: persino il matrimonio.

A voler vedere, non è strano: internet è forse l’innesto più importante aggiuntosi a “come si vive la vita” nell’ultimo secolo. È un intero nuovo piano dell’esistenza, artificiale, che malgrado l’impegno di tanti è ancora irrimediabilmente inaccessibile per troppi.

Per questo, malgrado ormai oltre un decennio di normalizzazione, internet è ancora un po’ wild west, è ancora un po’ “una cosa per giovani.”

Tutte le differenze tra internet e il Mondo Reale — e tanti dei verissimi problemi, dal bullismo ad abusi ancora più gravi — si possono riunire sotto un agente causante: internet è un “posto”, il posto più pubblico che abbiamo mai costruito, e quello più intimo allo stesso tempo.

Questa impossibilità fisica resa possibile dal digitale piega dinamiche e maschere che consideriamo da sempre elementi indiscutibili della nostra società.

Uno, in particolare, è tornato al centro del dibattito sugli effetti di internet sulla società: il declino definitivo del Pensiero positivo, uno dei pilastri del sogno americano.

La discussione si è riaccesa in seguito a un post “shock” su Medium di Mitch Horovitz, autore di Occult America e principale storico del Pensiero positivo, raccontato nel saggio One Simple Idea: “Abbiamo perso la guerra contro l’Infelicità.”

Il “Pensiero positivo,” un movimento filosofico eterogeneo ma di base cristiana, si basa sull’elevazione dell’essenza umana al divino, portando a un’unica conclusione possibile: malgrado le brutture del mondo, la vita dell’uomo tende naturalmente alla perfezione.

Dal magnetismo animale di Phineas Quimby all’odierna — e molto riformata — Chiesa della Scienza Divina il “pensiero positivo” è l’atto stesso che porta alla felicità, e secondo alcune scuole alla guarigione fisica stessa. Secondo altre chiese, come la giapponese Seicho-No-Ie, ogni imperfezione è a tutti gli effetti un’illusione della mente — illusioni che attraverso lunga meditazione e costante pensiero positivo permettono di (ri)scoprire l’ambiente, e se stessi, nella loro perfezione.

Al di là dell’occulto, il pensiero positivo è uno dei punti fondamentali della American Way of Life: dalle campagne elettorali iper-ottimiste all’immagine ideale della famiglia americana, è per definizione uno dei caratteri fondamentali della cultura statunitense. Con così poca Storia su cui costruire, è forse l’elemento più caratteristico e importante: nel suo post, Horivitz cita uno dei saggi iconici del Pensiero positivo mainstream — How to Win Friends and Influence People, di Dale Carnegie, 1936.

Forse il primo listacle, articolo per punti, della storia della saggistica da edicola, il libro prometteva: popolarità, carisma, di diventare un miglior venditore e imprenditore, di insegnare come ispirare entusiasmo verso i propri colleghi.

Cosa hanno in comune tutte queste promesse, oltre a essere fatue e vanesie?

Sono estremamente vecchie, di un’altra epoca, antiche. Ma, fa notare Horovitz, partono tutte da un presupposto: a vincere sono le persone gentili.

Horowitz insiste: è oggi provato che un pensiero costante abbia effetti biologici. In qualche modo, una base scientifica al pensiero positivo ci sarebbe — ma non ci sono più i presupposti perché l’ottimismo sia alla base della società, non in America.

È il male o il sintomo? Horowitz non scioglie il mistero, ma la cartina al tornasole è una: Twitter, e i commenti online. La società statunitense sta scivolando verso un nuovo modello, dove vince esclusivamente il più forte, il più maleducato, il più egoista, e per gli altri — gli sconfitti — resta solo la melanconia, la tristezza, la depressione.È così, dice, che cresce una società che è quasi ostile al concetto di civiltà, e confonde forzature con forza, un’America intrinsecamente anti-americana.

Dall’alt-right, la nuova destra xenofoba statunitense, ai meme della Lega Nord è facile abbandonarsi a questa visione, altrettanto mistica, in cui la fine del mondo–come–lo–conosciamo non è una visione minacciosa in lontananza, ma un Moloch incombente, creato dall’umanità e che distruggerà l’umanità.

È invece fondamentale tornare alla descrizione che abbiamo dato in precedenza di internet — il posto più pubblico ma anche il più intimo, perché davvero privato, anonimo.

La paura dello sconosciuto ci porta inevitabilmente a immaginare per prime le conseguenze orribili di questo adynaton trasformato in verità, senza nemmeno realizzare di aver creato qualcosa di rivoluzionario.

Internet è per la prima volta nella Storia un posto dove si può essere pubblicamente depressi, dove si può discutere della propria condizione con altre persone — che magari sono “soltanto” infelici, ma che possono offrire davvero supporto, o anche solo, una bonaria, complice presa in giro.

La società contemporanea ha da tempo sostanzialmente imposto il kibosh su ogni forma di melanconia: la vita ha un senso, sia esso donato da un Dio, dal lavoro o dal consumo stesso, la felicità è la condizione naturale dell’umanità, e per raggiungerla bisogna rispondere a determinate caratteristiche e condizioni.

La sfera pubblica del Mondo Reale aveva creato un demone — questo vero, non come internet, che fa paura come facevano paura gli Indiani d’America — invisibile: una società che si nutriva del pensiero positivo non perché ci credesse ma perché aveva bisogno di pensare di crederci. I libri di Self Help non facevano che far star peggio chi li leggeva, non scatenano rilasci di dopamina come una rivista di Fai da te illude il lettore che mai farà qualcosa consigliato sulle sue pagine.

La depressione è una malattia, è il più diffuso disturbo mentale al mondo, ma in quanto tale non può essere diagnosticata facendo una lastra, o degli esami del sangue. Affrontarla richiede l’uso di medicinali e il consulto di specialisti: ma parlarne è l’unico possibile punto di partenza.

Ma parlare della propria depressione è difficilissimo. La società dei non–depressi, di chi vede ancora un senso per la propria vita, non è in nessun modo munita per rispondere ai tentativi di apertura di chiunque voglia parlare della propria condizione. Come spiega l’artista online Allie, di Hyperbole and a Half, in un fumetto che dovete leggere, spiegare a qualcuno la propria depressione è come piangere per la morte dei propri pesci rossi e sentirsi rispondere così: “I pesci sono sempre morti prima dell’alba”, “Hai provato a dargli da mangiare?”, “Una volta avevi così tanti pesci… ma cosa ti è successo?”, “E invece, le api? Ti piacciono le api?”, “Vediamoci questo week end e facciamone dei divertentissimi burattini!”, “Non puoi farli tornare in vita e basta?”.

La creazione di questo nuovo posto, intimo e pubblico, ha per la prima volta dato una valvola di sfogo a tante persone che “banalmente” non sarebbero riuscite a parlarne con qualcuno in carne e ossa, e attraverso il linguaggio di internet, meme, gif, caption, prendono il controllo della narrativa del loro malessere.

Sia a livello privato che di società, questo è un atto rivoluzionario: è il primo vero passo verso una più ampia accettazione di una condizione diffusissima e che, principalmente per stigma culturale, troppo spesso non viene affrontata.

La compresenza di (relativo) anonimato ed esposizione ha creato veri mostri e orrori — non è possibile valutare se “ne valga la pena,” ma è possibile prendere atto delle conseguenze: la troppo lunga dittatura del Pensiero positivo, che niente ha a che vedere con il positivismo ma che a volte ricorda più la “mano del destino,” è giunta alla sua naturale conclusione, lasciando spazio a un mondo dove si può accettare che “la realtà” sia terribile, ma si può anche viverla in maggiore serenità. Poco alla volta.