I palestinesi non possono usare PayPal

La compagnia attiva nel settore dei pagamenti online non ha preso accordi con le banche che sottostanno all’Autorità Monetaria Palestinese.

Circa 5 milioni di palestinesi non hanno  la possibilità di usufruire del servizio di PayPal, che pure è attivo in 202 Paesi del mondo.

A fine agosto, una quarantina di aziende, associazioni e gruppi di pressione hanno indirizzato una lettera aperta a Daniel Schulman, presidente e CEO di PayPal, per chiedere che l’operatività della compagnia — leader nel settore dei pagamenti online — sia estesa anche ai territori palestinesi della striscia di Gaza e della Cisgiordania.

Per accompagnare la campagna, è stato lanciato su Twitter l’hashtag #PayPal4Palestine.

Circa 5 milioni di palestinesi (poco meno di 3 in Cisgiordania, quasi 2 nella Striscia) non hanno infatti la possibilità di usufruire del servizio, che pure è attivo in 202 Paesi del mondo, molti dei quali altrettanto instabili politicamente — come lo Yemen e la Somalia — o decisamente deprecabili dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, come l’Eritrea.

I cant work as a freelancer because i simply don't have a #paypal account. Make it available in palestine, please. #Paypal4Palestine

— Nadia AbuShaban® 🇵🇸 (@NadiaAbuShaban) August 26, 2016

Ma il vero paradosso è che possono utilizzare PayPal perfino i coloni israeliani che vivono negli insediamenti in Cisgiordania — considerati illegali dalla comunità internazionale — mentre i palestinesi, magari a poche centinaia di metri di distanza, non possono.

La ragione è che non ci sono accordi tra PayPal e le banche che sottostanno all’Autorità Monetaria Palestinese — anche se la moneta più usata è comunque lo shekel israeliano. Ma la guerra si gioca spesso anche sul piano bancario, dato che gran parte delle entrate fiscali dell’Autorità Palestinese dipendono comunque dalle banche israeliane.

Tra i firmatari della lettera a Schulman figurano aziende attive nel settore tecnologico o turistico palestinese, incubatori di startup come Gaza Sky Geeks e gruppi di pressione esteri come Americans for a Vibrant Palestine Economy, da cui sembra partita l’iniziativa.

“L’assenza di PayPal è un grosso ostacolo per la crescita del settore tecnologico e in generale dell’economia palestinese,” scrivono. “Quello tecnologico è uno dei soli settori con qualche potenzialità di crescita nello status quo delle condizioni dell’occupazione israeliana, che pone severe restrizioni ai movimenti interni ed esterni di beni e persone.”

In effetti, con circa duemila laureati in informatica ogni anno, i territori palestinesi hanno dato vita a un piccolo miracolo tecnologico, attirando anche un buon numero di investimenti stranieri — come i 10 milioni stanziati da Cisco Systems tra il 2008 e il 2012.

Contattata da TechCrunch in merito alla questione, PayPal ha dato una risposta piuttosto vaga: “L’ambizione di PayPal è che alla fine tutti abbiano accesso ai nostri servizi per il pagamento e il commercio digitale, in accordo con i requisiti di regolamento applicabili. Apprezziamo l’interesse che la comunità palestinese ha mostrato per PayPal. Non abbiamo nulla da annunciare per il futuro immediato, ma lavoriamo continuamente per sviluppare partnership strategiche […] e acquisire le autorizzazioni locali necessarie per entrare in nuovi mercati.”

Insomma, per gli imprenditori e i privati palestinesi ci sarà ancora da aspettare.

We're not terrorists, we are Startup founders :) #paypal4palestine

— Wafaa Bardawil (@WafaaBard) September 7, 2016