Difendere acriticamente il liceo classico è inutile
Da ex studente di liceo classico, sono convinto dell’importanza del patrimonio storico, letterario e filosofico che lì si tramanda. Ma non esageriamo nell’elogiare i suoi “benefici effetti sulla gioventù.”
Come disse un compositore tardoromantico: “la tradizione è conservazione del fuoco, non adorazione della cenere.” E proprio nell’idolatria dei prodotti della combustione è incappato Nicola Gardini nel suo recente intervento sul Sole 24 Ore, dal titolo “Scuola modello per l’Occidente”. Si tratta di un’ampollosa difesa del liceo classico, istituzione ammiraglia dell’educazione italiana e fucina della classe dirigente, da non meglio precisati avversari scientisti:
“Chi esce dal liceo classico […] conosce la Grecia e Roma e quello che queste civiltà hanno inventano e tramandato e grazie a tale conoscenza sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, distinguere, riconoscere il duraturo e l’effimero, dare un nome a fatti diversi, capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia. Ma il liceo classico per alcuni non serve più. Questi alcuni sono persone che del liceo classico non hanno un’idea. E se l’hanno, pretendono che venga negato ai giovani in nome di un falso concetto di modernità, che dovrebbe promuovere esclusivamente le scienze.”
Da ex studente di liceo classico (che ha proseguito gli studi in materie economiche), sono convinto dell’importanza del patrimonio storico, letterario e filosofico che lì si tramanda; e ritengo che si debba guardare con sospetto ad ogni intervento volto a smussare lo spirito critico e l’iniziativa culturale degli studenti, con il risultato, più o meno intenzionale, di trarre da loro una forza lavoro acritica e docile, per cui il sapere sia qualcosa di a-storico e principalmente “tecnico”, destinato alla sola rendita professionale.
Che però i benefici effetti sulla gioventù, elencati con tanti elogi da Gardini, discendano dal solo liceo classico, è eccessivo.
E nelle sue parole, inoltre, intravedo una buona dose di paternalismo con cui si dice ai giovani cosa è bene che studino e di cosa è male che si occupino. A meno di pensare – poniamo – che il calcolo di un limite o di un integrale siano la sterile applicazione di una regola e non il frutto di una capacità analitica e persino di qualche guizzo creativo. Oppure, che non si possa imparare a studiare una lingua prendendo le mosse, per esempio, da un corso di tedesco.
Alla riapertura delle scuole, si ripropongono le usuali polemiche. Di fatto, da molti anni si parla di “crisi” del liceo classico, di gran lunga superato dallo scientifico nelle preferenze degli studenti.
Dati alla mano, secondo il Focus sulle iscrizioni all’anno scolastico 2016-2017, pubblicato dall’Ufficio Statistica del MIUR si sono iscritti al primo anno del classico 6 studenti su 100 (in lievissimo aumento rispetto al 2015-2016, ma il trend su più anni resta negativo) contro i 15 su 100 dello scientifico.
Ma se il punto è difendere il liceo di Omero e Cicerone, spiace rilevare che l’intervento di Gardini sembra alimentato da un concetto museale del sapere (appunto, la “cenere” richiamata in principio): imperniato su un’ammirazione pedissequa dell’antico, non individua gli “avversari” corretti del liceo classico e non affronta alcuni nodi più salienti della produzione della conoscenza.
Che dire, per esempio, di un programma di filosofia che si spinga fino ai cultural studies, e introduca il loro bagaglio concettuale? Si potrebbe pensare di mettere “identità,” “genere,” “subalternità,” “colonialismo” nella cassetta degli attrezzi degli studenti, per provare a decifrare culture differenti, oggi così interrelate e spesso inquadrate nell’approccio riduzionista dello “scontro di civiltà”? Non sarebbero un antidoto a un certo eurocentrismo che, a volte, mi sembra indotto da certi discorsi sulla classicità?
Certo, in una scuola, l’orario settimanale è dato e la ripartizione fra le materie deriva da scelte necessarie per caratterizzare il percorso di studi. Non è pensabile un ampliamento indiscriminato dei programmi, all’inseguimento di un sapere totale.
Consideriamo, per esempio, gli ultimi tre anni di corso. Già con la riforma Gelmini in vigore dal 2010, le ore di insegnamento in tale periodo sono leggermente aumentate: sono infatti 31, contro le 28/29 della distribuzione sino ad allora in vigore. L’effetto deriva sostanzialmente da un aumento delle ore di storia dell’arte e dall’introduzione della fisica al terzo anno (materia precedentemente insegnata solo al quarto e al quinto), parzialmente compensate con un livellamento delle ore di scienze.
E non intendo attribuire alcun valore normativo al mio riferimento ai cultural studies. Niente miti: nell’avvicendarsi dei saperi, un giorno la loro stella tramonterà. Ma oggi, “meno San Tommaso, più Edward Said” mi pare una provocazione affascinante.