Venezuela: un Paese sull’orlo del baratro
La chiamano ironicamente la Dieta Maduro: niente carne, niente farina, niente zucchero, niente olio. Ormai i venezuelani sono costretti a varcare il confine con la Colombia per fare la spesa.
Il Venezuela è in ginocchio. Dopo vent’anni di politiche economiche controverse, l’erede di Hugo Chavez, Nicolas Maduro sta governando un Paese in grave crisi economica, politica e istituzionale.
L’opposizione, il 2 settembre, ha portato in piazza 1 milione di persone che chiedono un voto referendario per deporre il Presidente. Se l’opposizione riesce a ottenere il referendum entro fine 2016, allora si terranno nuove elezioni. Ma il governo sta temporeggiando: infatti, se si va oltre il 10 gennaio la carica passerà direttamente al Vicepresidente fino alle prossime regolari elezioni, nel 2019.
Il 4 settembre, a Isla Margarita, il Presidente Maduro è stato inseguito e accerchiato da una folla di cittadini infuriati per le condizioni in cui verte la nazione.
La Dieta Maduro
Il malcontento è dovuto in primo luogo alla carenza in tutto il territorio venezuelano di beni primari che sono acquistabili solo a prezzi esorbitanti: l’inflazione in sei mesi è salita dal 70 al 700% e raggiungerà il 1000% entro fine anno.
Progressivamente i beni di prima necessità stanno scomparendo dagli scaffali dei supermercati: nel 2013 mancava la carta igienica, nel 2015 è stato il turno dei contraccettivi (cosa che ha spinto molte donne a ricorrere alla sterilizzazione e ha causato un drastico calo delle nascite), fino ad arrivare ai farmaci e a svariati alimenti.
La chiamano ironicamente la Dieta Maduro: niente carne, niente farina, niente zucchero, niente olio.
Sono ormai tristemente celebri le immagini dei venezuelani che superano il confine in massa per cercare cibo. Le frontiere con la Colombia sono state aperte temporaneamente il 10 luglio e 35mila venezuelani hanno superato i confini e si sono messi in coda nei supermercati colombiani per comprare cibo a prezzi più accessibili. La scena si è ripetuta il 16 luglio e questa volta sono stati 123mila i venezuelani che hanno superato i confini. Nel loro Paese un chilo di riso costa 4500 bolivar, 10 volte tanto rispetto al normale.
Le condizioni igieniche e sanitarie degli ospedali venezuelani sono emblematiche della crisi del Paese: mancano le risorse basilari per fare controlli e interventi, non ci sono antibiotici, guanti sterili e i defibrillatori aspettano di essere riparati; aspettano di essere riparate anche le tubature dell’ospedale dell’Università delle Ande a Mérida, dove da circa un anno manca l’acqua e le sale operatorie sono spesso ancora sporche del sangue del paziente precedente, come riporta il New York Times.
Anche il primato nelle operazioni chirurgiche low cost da sempre detenuto dalle cliniche di Caracas è stato spazzato via dalla crisi. La recessione venezuelana è iniziata nel 2013 con il crollo delle quotazioni del petrolio in cui Maduro e il suo predecessore avevano confidato per la ricchezza del Paese. Con il crollo, il Venezuela ― senza un vero e proprio piano politico ― è collassato lentamente e ad oggi non ci sono più nemmeno i soldi per stampare i soldi.
Inoltre, il Venezuela non ha diversificato le sue fonti di energia: per preservare i suoi giacimenti di petrolio ed esportarne il più possibile, si alimenta quasi esclusivamente con energia idroelettrica, notoriamente poco affidabile; infatti l’ondata tropicale del 2010 demnominata “El Niño” ha portato il Paese in gravi condizioni di siccità e quindi di carenza energetica. Quella che nel resto dei Paesi occidentali è una scelta rischiosa ma ecosostenibile, in Venezuela è mossa da altri intenti e ha causato una “crisi dell’elettricità” che ad oggi provoca continui blackout.
La crisi economica diventa crisi umanitaria
I bambini lasciano la scuola per darsi alla compravendita di prodotti al mercato nero, organizzato in piccoli clan. La denutrizione e la mortalità infantile stanno raggiungendo livelli mai visti in un Paese in pace e mediamente ricco come il Venezuela, avvantaggiato rispetto ai suoi vicini per i giacimenti di petrolio tra i più grandi dell’America Latina.
“La colpa è delle grandi potenze capitalistiche estere che cercano di destabilizzare il Paese” è la risposta di default del presidente Maduro che si sente costantemente minacciato dai dirimpettai statunitensi.
Il presidente è famoso per le sue teorie complottiste: già nel 2013, poco prima della morte di Chavez, l’allora vicepresidente Maduro aveva pubblicamente affermato che “i nemici storici della patria” stavano uccidendo il presidente, malato da anni di cancro. Non manca neanche oggi la scappatoia complottista davanti alla mancanza di consenso popolare e alla delegittimazione del suo governo.
Il mandato di Maduro è ormai al tramonto: a dicembre dell’anno scorso si è votato per rinnovare il Parlamento e il partito del presidente (Partido Socialista Unido de Venezuela) ne è uscito drasticamente sconfitto ottenendo solo 55 seggi su 167. Le opposizioni, unite in una coalizione, hanno ormai la maggioranza indiscussa in Parlamento dopo 17 anni ininterrotti di maggioranza socialista. Questo ha bloccato la politica del Paese.
Il 13 maggio Maduro ha dichiarato un nuovo stato di emergenza senza l’approvazione del Parlamento – lo stato di emergenza permette al Presidente di intervenire nell’economia pubblica e privata del Paese senza il consenso del Parlamento.
Ieri ci sono stati nuovi scontri e proteste in tutto il Venezuela mentre il governo risponde denunciando le manifestazioni come un tentativo di coprire un golpe. L’affluenza rispetto al corteo del 2 settembre è sempre più ridotta in parte a causa della pioggia e in parte perché i cittadini sono bloccati per intere giornate in fila per acquistare prodotti alimentari di base e medicine.
La risposta del governo alle proteste è stata una violenta repressione e arresti di manifestanti pacifici.
I genitori e gli avvocati dei ragazzi arrestati nelle ultime manifestazioni hanno denunciato le torture subite dai figli trattenuti per giorni nelle carceri venezuelane.
Secondo il report del 2016 di Human Rights Watch a partire da luglio 2015, il presidente Maduro si è servito di più di 80mila membri delle forze di sicurezza nazionale per affrontare l’aumento dei problemi di sicurezza e la vendita illegale di prodotti. Durante queste operazioni, sono stati violati i diritti fondamentali con detenzioni arbitrarie, perquisizioni a domicilio e abusi verbali e fisici.
Questo non fa che aggravare la posizione del Venezuela che si colloca tra gli stati più violenti al mondo. Si aggiunga anche il fallimento dell’esperienza di governo del bolivarismo nata con Hugo Chavez e continuata da Maduro, i cui ideali sono crollati assieme alle quotazioni del greggio.