L’iniziativa di devolvere il jackpot del Superenalotto ai terremotati del reatino — che da giorni gira sui social network, accompagnata inevitabilmente da confutazioni, contro-confutazioni, scherni e spiegoni giornalistici — è partita a quanto pare da un deputato del PD, ed è stata rilanciata, tra gli altri, da Giorgia Meloni, per poi trovare la sua casa naturale su Change.org.
Faccio una proposta al governo: destiniamo jackpot #Superenalotto a popolazioni colpite da #TerremotoItalia. ST pic.twitter.com/SsaUAIwrKl
— Giorgia Meloni ن (@GiorgiaMeloni) 24 agosto 2016
Ma la petizione online per chiedere che l’enorme somma di 130 milioni di euro venga bloccata e utilizzata per la ricostruzione in Centro Italia non è una sola. Sono trenta. Almeno, tante ne conto al momento in cui scrivo.
È uno degli aspetti caratteristici di Change.org e del petizionismo online in generale: senza nessun filtro “editoriale” — chiamiamolo così — chiunque può lanciare la propria campagna, non importa quanto raffazzonata e informale, e non importa se è un doppione di altre decine di campagne uguali. Soltanto una, poi, riesce ad essere virale e a raccogliere un numero ragionevole di adesioni — perché è arrivata prima, o perché è stata ripresa da qualche organo di stampa, o più probabilmente per puro caso.
Nel nostro caso, la petizione “di successo” è quella promossa da ALESSANDRO Gambino (sic) e ha raccolto finora quasi 360 mila sostenitori, indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, all’AAMS, al Parlamento Italiano (sic) e alla SISAL. Quest’ultima — la concessionaria dei giochi d’azzardo in Italia — è una società privata, ed è su questo che si sono appuntati i principali argomenti d’infattibilità: non si può semplicemente espropriare questo denaro.
Lo stesso ALESSANDRO Gambino se ne dimostra consapevole, ma invoca il potere della massa critica e sentenzia, memore dello strazio dell’Antigone sofoclea: “Ricordate che le leggi sono fatte dall’uomo!!!”7400 sottoscrittori ha invece la petizione di Sabrina Antonetti, indirizzata a un fantomatico “Monopolio di stato.” Quello dei destinatari è un capitolo divertente, così come per firmare basta un nome qualsiasi e un indirizzo email: io stesso ho firmato un paio di volte la petizione di Gambino come Camillo Benso e Lamberto Dini — i due statisti a cui m’ispiro — sfruttando un indirizzo email temporaneo di 10minutemail e Change.org non ha battuto ciglio, anzi è riuscito a strapparmi un sorriso con la sua schermata post-firma “adesso fa’ il passo successivo verso la vittoria” (la conquista di Roma, ovviamente) — dicevo, anche i destinatari possono essere completamente random.
Così abbiamo Matteo renzi e il MINISTERO DEGLI INTERNI tra i destinatari della petizione di Alan Barbi, direttamente da Brooklyn, Italia, con 3000 e passa sostenitori; e poi Superenalotto, Governo, tutti (il mio preferito), tutti gli italiani (un po’ più realistico), AIMS (sic), Mamme e papà di Roma, stato. Il più scrupoloso è Emanuele Schiano, che si è premurato di inserire tra i destinatari l’indirizzo PEC del Presidente del Consiglio, oltre a matteo@governo.it, ma ha guadagnato finora solo 64 sostenitori.
Nonostante la totale mancanza di serietà che traspare da ogni centimetro di Change.org, il sito è diventato la front page dell’attualità italiana e internazionale. Non soltanto terremoti e superenalotti: idealmente una persona potrebbe smettere di informarsi attraverso i giornali (come se qualcuno lo facesse ancora) e limitarsi a dare una scorsa alle petizioni pubblicate sul portale, per sapere cos’è successo nei giorni precedenti. Il tutto attraverso il filtro dell’indignazione popolare o di uno spirito di attivismo quanto mai naïf.
Dopo la Brexit? Una petizione per rilanciare l’Europa democratica attraverso una nuova Convenzione europea (quasi 51 mila sostenitori).
Bombardamenti in Yemen? Una petizione per fermare l’esportazione di armi italiane all’Arabia Saudita.
Gli atleti paralimpici russi sono stati esclusi dalle Paralimpiadi di Rio? Firmiamo una petizione per farli riammettere.
Lo scandalo delle violenze sui bambini di un asilo milanese? C’è una petizione per dire sì alle telecamere negli asili (65mila sottoscrittori).
E poi gli evergreen e i casi celebri, come le petizioni per abolire la corrida o il festival della carne di cane a GuangXi.
Ma la febbre delle petizioni online non è nuova e non riguarda soltanto l’Italia.
In Francia, tanto per fare un esempio, una petizione contro la contestatissima Loi Travail ha raggiunto la cifra record di un milione di firme, suscitando la risposta della stessa ministra del lavoro Myriam El Khomri.
Change.org — che ha più di 150 milioni di utenti in tutto il mondo — basa i propri profitti attraverso le petizioni sponsorizzate e la vendita delle email dei sottoscrittori agli sponsor, come ha rivelato una recente inchiesta. Per questo il sito si è guadagnato un’istruttoria del garante della privacy a fine luglio.
Per glissare sul fatto che le petizioni non vadano da nessuna parte, così che il ruolo del campo “destinatario” è poco più che esornativo, Change.org si tiene sul vago, scrivendo che i firmatari delle petizioni “collaborano con” o “coinvolgono” i “decision maker” per “raggiungere cambiamenti a livello locale, nazionale e globale.” Ed enfatizza le cosiddette “vittorie,” suggerendo che certi avvenimenti siano direttamente determinati dalle petizioni — magari sottoscritte da poche migliaia di persone — che li hanno richiesti. Il che, come si sa, contraddice una delle leggi basilari della logica.
Per esempio, tra le “vittorie” più reclamizzate sulla sezione italiana del sito c’è la decisione della giunta Raggi di limitare soltanto al 2016 la sospensione della pedonalizzazione dei Fori Imperiali, che dovrebbe riprendere nel 2017. Il merito? È di una petizione lanciata da nientemeno che Ignazio Marino e “firmata” da 16 mila persone.
Non si tratta di denigrare in toto il cosiddetto slacktivism, a cui non va negato il pregio di poter animare campagne di opinione in grado di portare davvero qualche forma di cambiamento (senza il .org), almeno a livello di sensibilizzazione. Uno studio del 2015 ha cercato di dimostrare che l’attivismo-da-tastiera contribuisce a rafforzare i veri movimenti sul campo. E c’è chi sostiene che sia in larga parte merito di internet se gli animalisti sono riusciti, negli ultimi 15 anni, a far cambiare lentamente la percezione collettiva in merito allo sfruttamento animale e agli allevamenti intensivi.
Dato che non siamo più nel 1997, ci si potrebbe augurare almeno di avere uno strumento serio, certificato e magari no-profit per le petizioni online.
Negli Stati Uniti le petizioni inoltrate attraverso il portale della Casa Bianca ottengono una risposta se raggiungono le 100 mila firme (vere, niente Camillo Benso); in Regno Unito a 10 mila firme scatta una risposta del governo, a 100 mila la petizione viene presa in considerazione per una discussione in Parlamento.
In Italia resta il diritto costituzionale di tutti i cittadini di presentare petizioni alle Camere, anche per posta elettronica (dove però è necessario allegare la scansione del documento cartaceo firmato), senza soglia di firme — ma la decisione di considerarle o meno è pienamente discrezionale.
Siamo ancora lontani da un servizio online accessibile ed efficace. Di certo, per reclamarne l’adozione da parte del governo o del Parlamento, far partire una petizione su Change.org indirizzata a stato non è una buona idea.