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Di recente, ci siamo occupati più volte della situazione dei profughi bloccati a Ventimiglia e dei potenziali effetti del nuovo provvedimento voluto dal capo della polizia Franco Gabrielli sul tema immigrazione.

La direttiva, entrata in vigore il 10 agosto, determina una condizione per cui, finché i Paesi confinanti con l’Italia manterranno chiuse le frontiere, i migranti proveranno continuamente a oltrepassarle di nascosto, e saranno di conseguenza deportati nei CIE del Sud Italia, da cui di nuovo ripartiranno verso il Nord. Dopo Ventimiglia, questo meccanismo di deportazione potrebbe presto essere attivato anche a Como, dove da circa un mese si è accumulata una folla di oltre 500 rifugiati che spera di raggiungere la Svizzera.

The Submarine si è recato sul posto per capire come la città e i suoi organismi stanno gestendo l’emergenza immigrazione.

Bisogna dire innanzitutto che, per adesso, la presenza dei profughi si limita al giardino pubblico circostante la stazione Como San Giovanni, che è stato occupato quasi per intero da tende e accampamenti di fortuna. Il contesto di degrado però è evidente e provoca il malumore dei residenti, che temono soprattutto il rischio sanitario, dal momento che non è stato ancora istituito nessun presidio medico. Soltanto il 17 agosto il comune e la prefettura hanno individuato in un parcheggio dismesso lo spazio in cui alloggiare temporaneamente i migranti, mentre i circuiti di volontariato che li assistono operano ancora in assenza di ordini precisi, spesso scontrandosi tra loro a causa di questa disorganizzazione.

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A raccontare la situazione a The Submarine è Martina (nome di fantasia), una volontaria giunta a Como da una settimana e che presta aiuto presso la Caritas Diocesana.

Martina ci spiega che su questo fronte la Caritas è una delle associazioni più attive della città, ed è il riferimento principale sia per i rifugiati sia per i cittadini che vogliono offrire il proprio aiuto. Le sue strutture, già stracolme, offrono vitto e alloggio a coloro che hanno fatto richiesta d’asilo in Italia e forniscono i servizi igienici di base e un pasto caldo ai profughi della stazione, che invece aspettano la riapertura della frontiera, nella speranza di stabilirsi negli altri stati dell’Ue.

Nel centro di accoglienza temporaneo arrivano ogni giorno decine di sacchi e scatoloni contenenti vivande, indumenti, prodotti per l’igiene e altri beni destinati ai rifugiati. Il tutto però va esaminato, smistato e ricollocato in modo ordinato nel magazzino.

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È un lavoro enorme, perché il sistema di comunicazione tra la popolazione e i volontari è approssimativo, e al centro viene inviata la merce più varia, spesso inadatta allo scopo o comunque inutilizzabile. È il caso di alimenti ormai scaduti e vestiti troppo logori o sporchi, che possono perciò diventare vettori di batteri, così come giocattoli o altri oggetti rotti, che diventano taglienti e pericolosi.

“Si approfittano della raccolta per disfarsi delle cianfrusaglie,” sbotta uno dei ragazzi mentre indossa dei guanti di lattice, “c’è della gente che vuole solo svuotare la cantina e noi rischiamo di prenderci qualche malattia.”

Del resto, la pulizia, così come l’ordine e la funzionalità dei locali utilizzati, sono a cura dei volontari, mentre i rifugiati aiutano a trasportare nel magazzino le borse e i pacchi scaricati dai camion nel cortile dell’edificio.

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All’ora di pranzo abbiamo modo di girovagare un po’ per lo stabile: l’atmosfera è serena, i profughi si mettono in fila alla mensa, aspettano pazientemente di ricevere la propria razione e salutano con un sorriso i volontari — anche quelli che non conoscono — poi siedono alla lunga tavolata.

Nei loro dialoghi non c’è entusiasmo, non c’è fretta di esprimersi, ciascuno interviene in modo pacato, nessuno appare troppo triste o sconfortato. Sono una cinquantina di ragazzi e ragazze tra i quindici e i trent’anni, Martina ci dice che provengono dall’Etiopia e dall’Eritrea, che hanno già fatto richiesta d’asilo e che stanno aspettando l’approvazione per cominciare una nuova vita nel nostro Paese.

Nel pomeriggio gli operatori della Caritas guidano alle docce i rifugiati accampati in stazione. A ciascuno verranno dati un asciugamano e della biancheria pulita, poi verrà chiesto loro se necessitano di nuovi vestiti o scarpe, infine saranno rimandati in stazione.

Appena il cancello viene aperto, i migranti corrono in massa verso lo stabile, dove i volontari li attendono con dei ticket numerati per regolamentare l’entrata ai servizi igienici — far rispettare i turni e monitorare tutta la procedura è fondamentale, perché gli spazi sono piccoli e i tempi sono stretti.

Le docce sono solo quattro, due per gli uomini e due per le donne, l’acqua calda è limitata, la pressione è razionata per la stagione estiva e qualche inconveniente alle tubazioni può sempre capitare.

Il gruppo è numeroso e problematico da gestire: alcuni di loro sono arrivati a Como solo da poco e non sono abituati a seguire le indicazioni dei volontari, alcuni dimenticano i bigliettini, altri gettano i vestiti usati nei cestini, altri ancora chiedono di entrare prima del proprio turno per usare il WC o per mettere in carica il cellulare — l’ultimo bene materiale che gli rimane, e anche il più importante.

Nessuno di loro ha con sé del denaro, l’hanno speso tutto per pagare i trafficanti che li hanno portati in Italia, ma quasi tutti sono in contatto con parenti già stabilitisi in Europa — e il cellulare è indispensabile per contattarli.

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Osserviamo i volontari mentre li indirizzano alle varie “fasi del lavaggio”: ognuno ha il suo metodo per farsi capire, c’è chi parla e chi gesticola ma la comunicazione è sempre difficile: solo pochi migranti parlano l’inglese o il francese. Per tale motivo il personale fa affidamento su Saqim, un ragazzo eritreo accolto qualche mese fa dalla Caritas che adesso collabora nella gestione della prima accoglienza.

Saqim ci fa intendere che, anche parlando la stessa lingua, farsi obbedire non è un compito facile. Dice che i ragazzi di questo gruppo hanno la testa fra le nuvole, non prestano attenzione, così poi non capiscono come devono comportarsi e rallentano le operazioni — con loro Saqim fa la parte del vigile.

Osserviamo la cinquantina di profughi ancora in attesa del proprio turno, lo sguardo di molti è effettivamente perso nel vuoto, gli occhi spenti. “Certo, sono demoralizzati,” interviene un diacono intento a spazzare per terra, “ma non si lamentano. Chissà cos’hanno dovuto passare prima di arrivare da noi.” Poi indica una ragazza con delle grosse cicatrici sulle braccia: “La vedi lei? È stata torturata in un modo che non possiamo neanche immaginare.”

Gli facciamo qualche domanda più specifica su come viene gestita l’emergenza, ma non sa rispondere – né a noi né a un gruppo di cittadini giunti nel frattempo che chiedono come possono rendersi utili.  

Nonostante molto sia ancora lasciato al caso, il sistema di assistenza messo in piedi finora — per quanto anarchico — funziona, e tutto sommato al centro si respira un’aria distesa.

“Il problema è che questo servizio costa,” puntualizza Martina, e l’accampamento in stazione inizia a provocare attriti sociali nella cittadinanza. C’è chi ha riempito i muri con scritte no-border e chi ha appeso gli striscioni della Lega Nord al balcone; contemporaneamente si sta facendo largo l’idea di organizzare una manifestazione e sfilare assieme ai migranti per attirare l’attenzione del governo e di Bruxelles.

Foto via Espansione TV
Foto via Espansione TV

Senza l’intervento coordinato degli stati dell’Unione Europea, il problema può solo peggiorare, alimentando il malumore della popolazione e dando luogo a episodi di intolleranza.

È forse il caso del controllore troppo zelante in cui ci siamo imbattuti sul treno dell’andata, il quale, per ogni extracomunitario colto sprovvisto di biglietto non esitava a convocare nella carrozza “tutte le forze dell’ordine presenti a bordo” — due poliziotti — commentando poi l’avvenuta espulsione con considerazioni piuttosto sgradevoli. Un trattamento che però ai free-rider italiani è stato risparmiato.