Nuovi documenti svelano la realtà del campo di concentramento di Nauru

Nauru si trova più di millecinquecento chilometri a Nord-Est dell’isola maggiore del continente, in pieno Oceano Pacifico.

Il Guardian ha pubblicato oggi migliaia di documenti relativi al centro di detenzione off shore gestito dalle autorità australiane sull’isola di Nauru, dove viene trattenuta una parte degli immigrati che cercano di raggiungere l’Australia. È il leak più grande di questo genere: più di duemila report, compilati dagli operatori del campo, relativi a incidenti interni, per un totale di 8000 pagine consultabili interattivamente.

Nauru si trova più di millecinquecento chilometri a Nord-Est dell’isola maggiore del continente, in pieno Oceano Pacifico. Con meno di 10 mila abitanti, è il più piccolo Stato indipendente su un’isola, ma ha una forte dipendenza economica e diplomatica dall’Australia, di cui è considerato da alcuni una sorta di Stato vassallo. Il centro di detenzione, entrato in funzione nel 2001 come soluzione temporanea, è stato riattivato nel 2012 dopo un primo stop cinque anni prima, in seguito a problemi relativi al sovraffollamento delle tende e alla mancanza d’acqua.

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La politica del governo australiano (con sostegno bipartisan) è di non far nemmeno toccare il suolo del Paese a chi arriva via mare cercando asilo: per questo vengono utilizzati i centri di detenzione off-shore – oltre a Nauru, anche l’isola di Manus in Papua Nuova Guinea.

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È bene specificare che Nauru e Manus – che costano all’Australia 1,2 miliardi di dollari australiani all’anno – non sono pensati unicamente come centri di accoglienza temporanea: hanno anche un’esplicita finalità di deterrenza, per scoraggiare altri migranti a intraprendere lo stesso viaggio – a questo scopo il governo australiano finanzia anche costose campagne pubblicitarie nei principali Paesi di partenza, soprattutto nel Sud-Est asiatico.

Ogni anno arrivano in Australia circa 190.000 migranti – alcuni di questi sono migranti temporanei, come i moltissimi giovani italiani che arrivano per un lavoro stagionale. Circa 13.500 persone sono accolte nell’ambito del cosiddetto “programma umanitario.” Chi prova a entrare in Australia sbarcando in modo clandestino, però, è ufficialmente non desiderato dal governo australiano. “In Australia ci sono circa 30.400 persone arrivate illegalmente via barca prima del 1° gennaio 2014,” si legge sul sito del governo, che è categorico: “L’insediamento in Australia non sarà mai un’opzione per chi arriva illegalmente via barca: famiglie, bambini, bambini non accompagnati, illetterato o specializzato.”

Alla fine di giugno, 442 richiedenti asilo vivevano nel centro di Nauru, qualche centinaio in più nella comunità cittadina dell’isola – quelli a cui è stato riconosciuto lo status legale di rifugiati, e sono più del 77%. Ma anche in questo caso il governo dell’isola non permette a nessuno di rimanere più di cinque anni – in quella che sarebbe comunque una prigione a cielo aperto. Dato che l’Australia non vuole saperne di accoglierli, preferisce pagare un altro Paese per farlo al suo posto: la Cambogia, l’unico ad essersi reso disponibile.

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L’intrinseca componente punitiva del centro di detenzione di Nauru è sottolineata da una recente inchiesta di Amnesty International e Human Rights Watch, che accusano il governo australiano di lasciare deliberatamente impuniti gli abusi perpetrati dagli operatori del centro – che il governo non gestisce direttamente, ma attraverso una compagnia privata, la Broadspectrum. Alle condizioni di vita disumane e agli abusi quotidiani – perquisizioni nelle tende, coprifuoco, docce di durata massima di due minuti, carenze e ritardi nell’assistenza sanitaria, intimidazioni – si aggiunge l’ostilità degli abitanti dell’isola, con continue molestie sessuali, rapine e tentativi di linciaggio, testimoniati dettagliatamente dalle 84 interviste che gli ispettori delle due organizzazioni umanitarie sono riusciti a raccogliere tra i rifugiati nel mese di luglio.

I documenti pubblicati oggi dal Guardian confermano ampiamente questi racconti e contribuiscono a rompere il muro di segretezza che circonda l’isola – dove nessun giornalista entra dal 2014 e Facebook è bloccato – rivelando “un quadro di disfunzione e crudeltà di routine.”

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Si tratta di incidenti di ogni genere, avvenuti fra il 2013 e il 2015, classificati per gravità. Quasi sempre sono una diretta conseguenza degli squilibri psichici provocati dalla detenzione prolungata in simili condizioni, aggravate dall’incertezza del futuro.

Nella maggior parte dei casi si tratta infatti di minacce di autolesionismo: in un rapporto del novembre 2014, una donna che soffre di incontinenza minaccia di darsi fuoco se il IHMS (l’ente che si occupa del servizio sanitario sull’isola) non prenderà in considerazione il suo problema; il primo gennaio 2015, un giovane rifugiato – separato dalla madre per otto mesi senza avere sue notizie – chiede a un operatore di Save the Children di somministrargli del veleno; a settembre 2015, una donna incinta che scopre di dover partorire su Nauru reagisce urlando di voler morire e uccidere il proprio figlio.

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Tutti i documenti, nella loro asciuttezza burocratica, rivelano l’allarmante fragilità mentale dei detenuti e la profondità dei traumi che sono costretti a vivere. Le testimonianze più dolorose sono quelle che riguardano i bambini, coinvolti nel 51,3% degli incidenti riportati – nonostante rappresentino solo il 18% della popolazione dei rifugiati. L’età degli individui non è mai specificata, ma non è difficile capire quando si tratta di minori: frequenti sono i report compilati direttamente dagli insegnanti delle scuole locali, o dagli operatori di Save the Children attivi a Nauru.

In un rapporto di agosto 2015, una bambina comunica non verbalmente – simulando la scrittura con il dito indice sul braccio dell’operatore di Save the Children – la propria volontà di lasciarsi morire di fame, perché “Gesù la sta aspettando.” Un bambino dice di fronte agli insegnanti: “Devo uccidermi per arrivare in Australia?”

A giugno 2014, un bambino comincia a strappare convulsamente le pagine da un libro. “Mi ha detto che sua madre è in sciopero della fame, […] piange tutto il giorno e si rifiuta di abbracciarlo. Lui sogna sangue, morte e zombie,” scrive l’insegnante. Spesso i minori sono vittime di abusi e maltrattamenti (anche da parte delle guardie del campo, che in più casi sono messe sotto accusa) o assumono comportamenti innaturalmente sessualizzati.

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Secondo Save the Children Australia, l’85% dei bambini rifugiati a Nauru non va a scuola, spesso perché vittima di atti di bullismo. In seguito alla pubblicazione dei documenti, un gruppo di 26 ex lavoratori della ONG sull’isola ha chiesto la chiusura del centro, dichiarando che quanto emerso è “solo la punta dell’iceberg.”

Dal canto suo, il Dipartimento australiano per l’immigrazione e la difesa dei confini ha rigirato il piatto: gli orrori contenuti nei report sono anzi la prova delle rigorose procedure di monitoraggio che le autorità esercitano sul centro di detenzione. “Molti degli incidenti riportati derivano da accuse non confermate o affermazioni non verificate – non sono rivelazioni di dati di fatto.”

Il governo australiano è perfettamente consapevole delle condizioni di vita sull’isola del Pacifico. Un rapporto pubblicato a febbraio scorso dalla Commissione australiana per i diritti umani aveva espresso forti preoccupazioni proprio sullo stato di salute mentale dei bambini detenuti a Nauru. “Questi bambini sono tra i più traumatizzati che abbiamo mai visto in cinquant’anni di carriera professionale,” aveva dichiarato la pediatra Elizabeth Elliott. Prese di posizione contro la gestione del centro erano arrivate più di un anno fa anche da parte delle Nazioni Unite.

Ad aprile 2015, il Ministro dell’immigrazione Peter Dutton aveva dichiarato di voler rendere Nauru un “ambiente sano.” Ad oggi, è probabilmente ciò che più somiglia a un campo di concentramento legalizzato, e isolato in mezzo all’Oceano.