Questa notte la campionessa russa di nuoto Yulia Efimova è stata accolta da un suono raro tra gli spalti olimpionici: fischi di disapprovazione e buu.

Efimova era risultata positiva ai test per l’ormone steroideo DHEA–5, 5-deidroepiandrosterone, nel 2014 e conseguentemente era stata squalificata dal comitato antidoping della Federazione internazionale del nuoto per un anno e mezzo.

Nel contesto dello scandalo della macchina del doping della Federazione russa, Efimova era stata bandita dalla competizione olimpica, per poi essere riammessa all’ultimo minuto dal Comitato Olimpico Internazionale in seguito al ricorso presentato dall’atleta al Tas.

Al netto delle motivazioni politiche dietro lo scandalo russo, la lotta all’uso di sostanze che migliorino artificialmente la performance degli atleti è vecchia quanto lo sport stesso. Fin dalle Olimpiadi degli antichi Greci l’uso di piante, testicoli di toro e “pozioni magiche” (che bei tempi) era considerato vergognoso ed era causa di squalifica.

L’uso di sostanze è insomma parte intrinseca dello sport – in qualche modo, è parte della competizione, così come lo è, in questo momento, riuscire a doparsi passando i test.

Un’indagine dei primi anni Settanta, poi ripetuta nel 1982, nel 1995 e infine nel 2009 rivelava la scioccante normalità con cui l’uso di sostanze era visto dietro le quinte della competizione. Il medico e publicista Robert Goldman chiese ad un vasto campione di atleti di altissimo livello se avrebbero assunto una droga illegale che avrebbe garantito loro la vittoria ma che li avrebbe uccisi cinque anni dopo. Nelle prime indagini di Goldman, e nelle successive di Klatz e Connor, la vasta maggioranza degli sportivi rispondeva affermativamente, che avrebbe assolutamente assunto la sostanza. Solo nel 2009 finalmente il risultato sarebbe sceso drasticamente entro la media della popolazione generale (attorno all’1%).

Se il risultato del 2009 è rassicurante — almeno circa la stabilità mentale degli intervistati – il dato è che il problema del doping è lungi dall’essere risolto, e tormenta l’ideale sportivo stesso senza sosta.

Ma, perché dovrebbe?

Una domanda resta in sospeso dalle scorse Olimpiadi: quanto è possibile ancora migliorare i “record”? Mentre procediamo nel perfezionare allenamenti, regimi alimentari e, a chiamarle per quel che sono, le droghe legali, inevitabilmente andiamo incontro ad un appiattimento della varianza di performance tra concorrenti. Studi recenti hanno proiettato come velocità massima possibile 9,48 secondi per la corsa 100 m.

L’appiattimento dei record non è solo un problema di spettacolarità — anche se nel contesto dello sport questo è ovviamente uno degli aspetti preponderanti — ma rappresenta un enorme problema anche a livello teorico per lo spirito sportivo.

Come si continua la scalata una volta arrivati in cima?

Di fronte a questa barriera, inevitabilmente inizierà una “corsa all’armamento” — l’unica speranza è regolamentarla fin da ora.

Come si può però far combaciare l’inevitabile deriva transumanista (ding!) con lo spirito etico dello sport?

In un mondo in cui il doping viene regolamentato, inevitabilmente una parte importante dell’attenzione attorno allo scontro uscirebbe dagli stadi per entrare prepotentemente nei laboratori.

Ma la medicina non si ferma, non per gli atleti, non per usi civili o militari. Nuove droghe vengono continuamente inventate, e inevitabilmente, caso per caso, il loro uso deve essere approvato o bandito dagli enti sportivi.

Ogni anno cosa vuol dire essere umano cambia leggermente.

Avremmo cento anni fa considerato umani persone con un cuore meccanico? Oggi, persone che aprono le porte con un gesto della mano?

Chris Cooper, autore di Run, Swim, Throw, Cheat: The Science of Drugs in Sport (Corri, nuota, lancia, bara: la scienza delle droghe nello sport) (non è un seguito di Eat, Pray, Love), teorizza che la nostra avversità al potenziamento degli atleti sia piú legata al sentimento figlio della lotta all’abuso di stupefacenti durante gli anni Settanta che ad una forzosa prosecuzione dello spirito atletico ateniese.

I superuomini olimpionici che esempio darebbero ai bambini del mondo?

Youth-soccer-indiana

Tuttavia, questa critica può essere mossa anche oggi – per non parlare degli sportivi dello studio citato negli scorsi paragrafi – a voler prendere una posizione a riguardo: oggi gli atleti insegnano ai bambini a drogarsi illegalmente, in un futuro insegnerebbero ad affidarsi a medici esperti in materia.

È difficile anche rifiutare la tesi citando come l’abuso di queste droghe sarebbe devastante per i corpi degli atleti — certamente un uso nell’ambito della legalità porterebbe a controlli di qualità piú severi – ma in ogni caso parte importante dello sport è osservare eroi che portano il proprio fisico al limite del possibile, rischiando gravi ferite, o spesso la morte. L’atletica, come il calcio portano a danni fisici spesso permanenti, il football americano come la boxe sono stati legati all’insorgere di danni cerebrali permanenti, e in fondo lo spettacolo intero della Formula 1 stessa è il sacrificio dei piloti al dio della velocità.

È facile immaginare gli infiniti sviluppi che la medicina civile, per tutti, potrebbe avere grazie alla legalizzazione del doping.

Le Olimpiadi sarebbero meno belle? Forse. Di sicuro rimpiangeremmo quelle attuali. Assisteremmo a una concentrazione delle medaglie verso i Paesi più ricchi, capaci di alterazioni fisiche molto più avanzate? Senza dubbio, e questa forse è la critica più valida che può essere posta allo scenario — legare indissolubilmente il successo sportivo al progresso tecnologico, e quindi al capitalismo. (ding!)

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.