“Quello che per ogni altro sarebbe l’oceano della negazione, un orrore totale, io ci galleggio sopra in una barchetta di carta. Costruita con poche, mediocri, qua e là ironiche, idee generali.”
—Guido Morselli, Dissipatio H.G.
C’è un bel film dei fratelli Coen, L’Uomo che non c’era, in cui Billy Bob Thortnon interpreta Ed Crane, un barbiere silenzioso e isolato, un fantasma che non vede nessuno e nessuno vede. Il film è stato originalmente girato a colori e poi desaturizzato in un bianco e nero che affonda il protagonista in un’atmosfera ovattata, da semi-vita, in cui anche gli eventi più tragici sono accolti freddamente, con una dura rassegnazione che non lascia spazio all’esibizione del dolore. Ecco, dobbiamo immaginarci di immergerci anche noi in un’atmosfera simile per entrare nel mondo, all’apparenza così distante e senza niente in comune con un film hollywoodiano, dello scrittore Guido Morselli, uno dei più straordinari autori italiani del dopoguerra. Uno scrittore oggi considerato un classico ma la cui opera è stata pubblicata quasi interamente postuma.
Morselli nasce nel 1912 a Bologna ma vivrà la maggior parte della sua vita tra Milano e Varese. Di famiglia molto benestante, si laurea in giurisprudenza, ma con il beneplacito (e i soldi) del padre può permettersi di dedicarsi quasi unicamente alle sue due più grandi passioni: lo studio e la scrittura. A margine, spende molto tempo a contatto con la natura, lavorando in prima persona nelle tenute di famiglia – tanto che sulla carta d’identità, alla voce “professione,” farà scrivere con un certo orgoglio “agricoltore.”
Morselli non è quindi solo (perché in parte lo è, questo è indubbio) un figlio di papà che se ne sta in panciolle o tutt’al più muove i tacchi fuori di casa giusto per dilapidare un po’ di patrimonio familiare in giro per l’Europa. Morselli lavora. Lavora sodo. Studia con la metodicità del vero forsennato, perfezionando un sistematico programma di letture che lo porta sempre a risalire dal particolare all’universale, all’archetipo culturale (come dice al fratello, istruendolo: “Se Croce cita Vico, non lasciare cadere: va’ a fondo su questo Vico.”)
Gli italianissimi esempi di Croce e Vico non devono però trarre in inganno. I confini della provincia letteraria italiana sono troppo angusti per Morselli, che sente la necessità di spaziare in altri territori linguistici e temporali, appassionandosi a Platone, Plutarco e Sant’Agostino così come ad Aldous Huxley, Arthur C. Clarke e Albert Einstein, senza disdegnare un abbonamento al National Geographic. Il cosmopolitismo intellettuale di Morselli permea la sua scrittura: nel romanzo Il Comunista, ad esempio, si contamina di anglicismi (come ‘complessione’ al posto di ‘carnagione’) trasportando il lettore dalla fanta-emiliana Vimondino alle rive americane del lago Erie, andata e ritorno.
Il paradosso di questi voli intellettuali formato Concorde è che, mano a mano che passa il tempo, Morselli è sempre più isolato, sempre più Uomo che non c’era, invisibile al mondo editoriale italiano che non ne vuole sapere di pubblicare i suoi romanzi e saggi. Le lettere di rifiuto delle case editrici si accumulano infatti con implacabile costanza. Ma lui continua comunque a scrivere e ad inviare, alle volte senza crederci troppo (quasi fosse lo Snoopy dei Peanuts, quando placidamente invia i suoi romanzi invariabilmente rifiutati) alle volte scrivendo invece veementi lettere in cui accusa gli editori di essere nient’altro che “stampatori, fabbricanti di libri.” È in questo contesto che vedono la luce opere assolutamente all’avanguardia come Roma Senza Papa (libro per cui l’aggettivo “profetico” è stato usato senza parsimonia in seguito alle dimissioni di Benedetto XVI), Contropassato Prossimo (un’ucronia della Prima Guerra Mondiale) o il già citato Il Comunista, che – oltre alla satira sulla struttura chiesastica del PCI di allora – contiene una brillante disquisizione del marxismo alla luce del darwinismo (laddove in Roma Senza Papa si ibridavano cattolicesimo e psicoanalisi).
Per il contesto dell’epoca sono tutte opere non etichettabili e spiazzanti, estranee a ogni corrente letteraria in voga. In ogni caso, almeno due sono i fatti inconfutabili – che si potevano notare già allora, senza alcuna particolare competenza letteraria – della scrittura di Morselli: la precisione quasi maniacale nel documentarsi (che lo porta a citare nel Comunista l’inventore dello sfigmomanometro, l’italiano Scipione Riva-Rocci) e la tenacia e l’ecletticità con cui produce continuamente materiale nuovo, spaziando dal romanzo sperimentale al saggio rigoroso, passando persino per un Dizionarietto dietetico compilato con un tal dottor Riva e puntualmente proposto a varie case editrici (e persino alla Buitoni).
Come è possibile che uno scrittore così prolifico e dagli interessi così vari sia rimasto sostanzialmente inedito sino alla morte, se si escludono un paio di saggi e la collaborazione con alcuni giornali? La risposta non può che essere sfaccettata, e il caso sicuramente ha giocato la sua parte ma grossomodo si può ribadire quello che, a pubblicazione postuma avvenuta, scrisse Giorgio Manganelli: Morselli era “un perfetto disadattato,” troppo diverso rispetto a quella che era la letteratura italiana dell’epoca, impossibile integrarlo.
Se c’è però una criticità sostanziale nell’opera di Morselli, questa è a mio avviso quella che già Italo Calvino rilevava nella sua “celebre” lettera di rifiuto del Comunista, scritta per conto di Einaudi: l’assenza di vita. Morselli, come ogni buon scrittore, scrive solo di cose che conosce, anzi che conosce benissimo, quasi alla perfezione. Il problema è che è una perfezione di carta. La vita dell’Uomo che non c’era è nel bianco e nero dei caratteri tipografici dei libri, che – se si escludono certe amicizie fondamentali come quella con Maria Bruna Bassi – sono sempre di più i suoi unici compagni di conversazione. Emerge così una scrittura dal nitore incredibile, cesellata nei minimi dettagli ma anche, come gli rimprovera Calvino, “fredda, in cui la vita vissuta c’entra fino ad un certo punto.”
Ma aldilà di questa apparente freddezza c’è l’uomo, progressivamente stanco di sentirsi invisibile. Così Morselli si sfoga nel suo diario nel 1959:
“Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. […] Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. – Tutto è ugualmente inutile.”
Sembra una lettera di addio e invece mancano ancora tredici anni alla notte d’estate in cui Morselli deciderà di suicidarsi sparandosi un colpo con “la ragazza dall’occhio nero,” la sua rivoltella. Sono anni che Morselli trascorre prevalentemente nella “Casina Rosa,” un’abitazione da lui stesso progettata all’interno della tenuta familiare di Santa Trinita, vicino a Gavirate, in provincia di Varese. La Casina Rosa è una sorta di Anti-Vittoriale degli Italiani. Laddove quell’hoarder di D’Annunzio viveva nell’horror vacui accumulando chincaglierie di ogni genere, Morselli fa dell’horror pleni la sua filosofia di economia domestica. Tra le tenui mura rosa della Casina, d’inverno la temperatura non supera mai i 12°, d’estate le vivande stanno al fresco nel bosco, perché di elettrodomestici non ce ne sono. Più che spartano, è uno stile da anacoreta in piena regola. È in questo contesto che Morselli scrive il suo ultimo romanzo, il suo più rappresentativo, nonché probabilmente il più compiuto, il suo capolavoro: Dissipatio H.G. (dove H.G. sta per “Humani Generis”). Il libro perfetto da portare sotto l’ombrellone.
Nel romanzo, un uomo decide di suicidarsi “per un prevalere del negativo sul positivo”; un negativo calcolato con inquietante precisione essere il “70 per cento.” Quand’ecco che, quando l’uomo sta per uccidersi annegandosi di notte in un laghetto di montagna, è il resto dell’umanità a scomparire, a evaporare, a dissiparsi, in un Apocalisse silenziosa che lascia intatte le cose e vivi tutti gli esseri non umani. Il protagonista rimane così l’ultimo essere umano presente sulla faccia della Terra, una sorta di anti-Adamo.
Se il limite già citato della scrittura di Morselli è il suo essere “poco vissuta,” Dissipatio H.G. fa di questa esperienza di non-vita il suo punto di forza. Il solipsismo (la possibilità filosofica che non esista un Mondo al di fuori dell’Io) diventa così la premessa ad una serie di apocalissi a ciclo continuo, come scrive anche Anthony Burgess (l’autore di Arancia Meccanica): “Dato che siamo tutti solipsisti, e tutti moriamo, il mondo muore con noi.”
Nonostante la pesantezza dei temi trattati, in Dissipatio la scrittura non lascia spazio a querule o retoriche lamentazioni, ed è sempre tersa ed ironica, come quando fa il verso all’Apocalisse di Giovanni (“Calcano i glabri pendii del monte Armageddon. […] A piè del monte, due serpi loricate strisciano sibilando e buttando fuoco. E ognuna sulle scaglie ha una scritta, e su una si legge: Advertising e, sull’altra: Marketing”) o quando si lascia andare a un liberatorio anti-antropocentrismo: “Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro.” L’idea che la fine dell’uomo non è la fine del mondo è un altro tema centrale del romanzo.
In questo senso, Morselli si diverte in gustose descrizioni delle centrali elettriche che erogano per mesi anche senza personale o degli uccelli che riprendono con il loro baccano il controllo della città. Vale la pena di notare che questo genere di esercizi d’immaginazione costituirà il nucleo centrale del bel saggio di Alan Weisman Il mondo senza di noi, pubblicato nel 2007.
Insomma, come già accennavo, Dissipatio H.G. è il libro perfetto da leggere sotto l’ombrellone, immaginando un’angelicazione in massa dell’umanità in costume nei paraggi. Una liberatoria e materiale riappropriazione della spiaggia, della sabbia finalmente restituita al suo ruolo di deserto. O forse più probabilmente sarà il lettore a sentirsi aspirato verso l’alto, verso gli anaerobici paesaggi su cui Morselli fantastica. Lassù il cielo è limpidissimo ma l’altitudine è tale che l’aria è rarefatta e si fatica a respirare.