L’anno prossimo Starbucks arriverà in Italia. Perché non è una buona notizia
Da quando ha aperto la prima caffetteria a Seattle nel 1971, Starbucks si è espanso implacabilmente in 70 Paesi, vantando a oggi circa 24.000 negozi in tutto il mondo, ma con una straordinaria eccezione: l’Italia.
in copertina: foto CC-BY GoToVan
Da quando ha aperto la prima caffetteria a Seattle nel 1971, Starbucks si è espanso implacabilmente in 70 Paesi, vantando a oggi circa 24.000 negozi in tutto il mondo, ma con una straordinaria eccezione: l’Italia.
La scelta è sorprendente, soprattutto se si considera il fatto che la svolta per la grossa compagnia arrivò nel 1983 quando Howard Schultz, allora direttore marketing, diventato poi amministratore delegato, venne in visita a Milano – viaggio a cui dedica un capitolo del suo libro “Pour your heart into It.” Proprio qui trova l’ispirazione che guiderà la compagnia verso il successo planetario, come lui stesso afferma in un’intervista: “Gli italiani avevano creato una tale teatralità, romanticismo, arte e magia attorno al bere il caffè, che sono stato sopraffatto dalla certezza che fosse quello che dovevamo fare anche noi.”
Sembra che questa anomalia sia però destinata a sopravvivere per poco ancora, visto che lo stesso Schultz ha annunciato pubblicamente che all’inizio del 2017 una nuova sede aprirà in Italia, e proprio nella città che tanto lo aveva ispirato trent’anni fa.
Il licenziatario sarà il gruppo Percassi, il cui proprietario è Antonio Percassi, imprenditore bergamasco presidente dell’Atalanta, di certo non nuovo ad accordi con colossi del franchising.
Oltre che della squadra di calcio, Percassi è infatti presidente dell’Odissea Srl di cui fanno parte KIKO, Madina, Womo e il centro commerciale Orio al Serio. La sua carriera inizia negli anni Settanta e il suo curriculum vanta contratti con Benetton, Nike, Levi’s, Polo Ralph Lauren, Tommy Hilfiger, Zara, Gucci, Billionaire Italian Couture (lanciata da Briatore nel lontano 2005). Sembra che il fatturato generato dalle sue attività ammonti a 800 milioni di euro (e che sia anche indagato per evasione fiscale insieme ad altri dirigenti e calciatori dalla procura di Napoli).
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Ma perché Starbucks ha aspettato così a lungo ad aprire qui da noi e che cosa porterà la presenza di questa grossa catena di caffetterie nel nostro Paese?
Sembra che ciò che ha rallentano la decisione sia stata la consapevolezza da parte degli imprenditori americani della lunga tradizione del caffè italiano, molto diversa da quella americana.
Il caffè maggiormente consumato in Italia è l’espresso, in tazze di ceramica o vetro, bevuto al bancone o ad un tavolino ad un costo che di solito va dagli 0,80 centesimi a un 1 euro. Insomma, un caffè un po’ diverso dal tipico americano, bevuto nella tazza usa e getta fatta di carta e plastica, il cui costo è mediamente di circa 2,70 euro.
Il tempo che di solito si trascorre nei bar italiani è anche di per sé molto breve – e di certo conta il fatto che siano spesso poco attrezzati per lo studio e il lavoro (rare le prese elettriche e il WiFi).
Le caffetterie di Starbucks possono al contrario essere utilizzate come dei veri e propri uffici per freelance o sale studio per studenti: sono dotate di ampi tavoli e sedie, comodi divani, poltrone e soprattutto WiFi. Si possono trascorrere giornate intere senza che nessuno venga a chiedere di lasciare il tavolo (servizio che i bar indipendenti raramente riescono ad offrire).
La maggior parte della clientela di Starbucks però è quella to take away: quella che prende e consuma altrove, per strada, in macchina, in ufficio – motivo per cui i prezzi per chi non si ferma a consumare all’interno sono più bassi.
A fianco ai classici, Starbucks offre bibite a base di caffè o frutta a cui aggiungere zuccheratissimi sciroppi alla vaniglia, cannella, caramello e panna montata (anche insieme): tra questi la cioccolata calda, la mocha e il frappuccino. Tutte in tazze molto grandi e caloriche: la più piccola, chiamata “tall” misura 350 ml circa, quella media, “grande”, 470 ml, la più grande “venti”, più di mezzo litro (590 ml).
Anche il listino prezzi di Starbucks è un po’ diverso da quelli a cui siamo abituati: a Londra, ad esempio, un espresso costa 1.70 pound, un cappuccino piccolo 2.35, un americano piccolo 2.10, una mocha piccola 2.95.
Ma Starbucks potrebbe costarci caro anche in fatto di salute e ambiente.
Del 17 febbraio scorso è l’articolo apparso sul Guardian secondo il quale “milioni di inglesi stanno mettendo a rischio la propria salute ordinando cioccolata calda o altre bevande chai alla moda, che contengono una quantità sconvolgente di zuccherro – fino a 25 cucchiaini a porzione.” (“millions of Britons are putting their health at risk by ordering hot chocolate and other trendy chai drinks that contain staggering amounts of sugar – up to 25 teaspoons – in just one serving”.)
Cioè una quantità tre volte maggiore rispetto alle dosi giornaliere consigliate.
Si è scoperto che più di un terzo delle bibite contiene la stessa, se non maggiore, quantità di zucchero di quella presente in una lattina di Coca Cola.
Dopo la pubblicazione di questi dati, Graham MacGregor, professore di medicina cardiovascolare della Queen Mary University of London, ha chiesto al primo ministro David Cameron di creare urgentemente un’agenzia per la nutrizione che sia indipendente e non controllata dall’industria alimentare, definendo la dose di zucchero aggiunta al cibo e alle bibite che consumiamo “scandalosa”.
Ma non è la prima volta che Starbucks viene messa sotto i riflettori. Nel 2008 il quotidiano inglese The Sun aveva accusato la multinazionale di sprecare 23,4 millioni d’acqua al giorno. “The great drain robbery” consisteva nel lasciare scorrere l’acqua dei rubinetti di continuo, per motivi igienici, consumando giornalmente l’intero fabbisogno d’acqua di tutta la popolazione della Namibia (2 milioni di abitanti), con ulteriori perdite che ogni 83 minuti avrebbero potuto riempire una piscina olimpionica.
E nonostante questo sperpero sia stato tagliato (a detta di Starbucks del 23% dal 2008), e tentativi verso una produzione più sostenibile sia stato fatto, resta qualche dubbio sull’animo green della compagnia. Così come sul successo delle tazze riutilizzabili che i clienti possono portare da casa.
Lo spreco di plastica e carta necessarie per realizzare le celebri tazze usa e getta (e di acqua ed energia per produrle) è drammatico. Si parla di 4 miliardi di tazze di caffè all’anno, circa 500.000 all’ora, che finiscono tutte nella spazzatura.
Mentre la data precisa dell’arrivo di Starbucks a Milano ancora non è nota, è stata annunciata ieri una partnership con la celebre catena milanese di panetterie Princi, che offrirà i suoi prodotti nei punti vendita della caffetteria sparsi per il mondo. Potrebbe trattarsi di una prima prova tecnica di “avvicinamento” al nostro Paese.