foto per gentile concessione di Worrying Signs
Worrying Signs è una comunità su Facebook dedicata alla denuncia dei tantissimi casi di razzismo esplosi dopo la vittoria del leave al referendum sull’uscita dall’Unione Europea.
Abbiamo parlato con Natasha Blank, una delle tre fondatrici del gruppo, per discutere dell’ascesa del razzismo nel Regno Unito e di come contrastarlo.
Con la collega di Worrying Signs Sarah Childs sta raccogliendo e organizzando tutte le segnalazioni che raggiungono il gruppo per poter presentare al governo uno studio della situazione nazionale di effettivo valore statistico, che la politica non possa ignorare.
Al referendum ha vinto il leave. Il risultato come ha lasciato il Paese?
Lo stato in cui era il Paese dopo la vittoria del leave… Il paese era diviso. Ci sono molti problemi economici, politici, legali da risolvere e non penso che molte persone vogliano occuparsene. Non vogliono occuparsi dei problemi, tra le persone di diverse etnie e tra le diverse comunità, che sono venuti fuori dopo quest’anno di campagna così aspra per il leave, che essenzialmente ha speso moltissimo tempo prima del voto a esasperare e aggravare l’odio, in un certo senso incoraggiando l’acredine tra le etnie.
La questione politica principale riguardava le migrazioni. E anche i giornali hanno contribuito, fomentando il sentimento di intolleranza verso una parte della popolazione. E dopo il risultato del referendum è stato semplicemente un pandemonio. Molte persone pensano che il risultato abbia reso più audaci persone con una determinata visione – razzista, omofoba – facendogli credere che abbiano ragione, che ora metà del Paese è d’accordo con loro – cosa che ovviamente non è vera.
Non crediamo che tutti quelli che hanno votato leave siano razzisti, ma quelli che lo sono ora si sentono giustificati a dire tutto quello che vogliono – il che è davvero triste. E questo è il motivo per cui l’album fotografico in cui abbiamo raccolto le testimonianze di episodi razzisti è diventato virale: noi potevamo percepire questo sentimento di intolleranza ma non era riconosciuto e affrontato a livello ufficiale dai leader del nostro Paese. Ci ha lasciato sorpresi quante persone stessero cercando un modo per parlare, non avevamo realizzato quanto fosse grande il bisogno. Tanti volevano parlarne ma non lo facevano. Così abbiamo creato il gruppo, e il gruppo molto in fretta è diventato un meccanismo grazie al quale la gente ha potuto esprimersi.
Dunque in Regno Unito c’era già un problema col razzismo anche prima del referendum.
Oh, sì. Credo che sia lì, in ogni società, ma direi che non era potente com’è adesso. Anche io faccio parte di una minoranza, sono pakistana, e negli anni Ottanta, anche Novanta, la gente per le strade ti chiamava con espressioni dispregiative. Col tempo la situazione era migliorata: non che certe persone non pensassero piú quegli insulti, ma era diventato inaccettabile usarle in pubblico. Sento che dal venerdì del referendum c’è stato uno slittamento, e che è uno slittamento definitivo. È molto preoccupante: gli episodi di razzismo e intolleranza sono aumentati di molto.
Sono incoraggiata dal fatto che la gente stia iniziando a parlare, ma un sacco di queste cose non vengono ancora denunciate. E questo mi preoccupa, perché anche il Governo, per quello che può fare, non ha i numeri e i dati giusti su cui lavorare.
Stiamo cercando di far emergere tutti i casi di razzismo che possiamo, anche sfruttando l’hashtag #reportracism su Twitter. Stiamo raccogliendo tutti questi dati per creare un database per mettere insieme delle cifre ufficiali da poter dare al Governo così da misurare davvero i risultati della Brexit.
Magari potremo andare dalle autorità e dire: queste sono le statistiche e raccontano una certa storia — magari rileveremo particolari problemi in determinate aree, e si potrà chiedere un intervento mirato
Non crede che dopo questo momento di ascesa, il razzismo tornerà a farsi più sotterraneo?
È molto difficile da predire — non pensavamo nemmeno che saremmo arrivati a questo punto. Certamente speriamo che il problema se ne vada da solo, che sia solo una reazione all’attualità, e si normalizzi.
Ma se non fosse così, ci serve un piano per garantire la sicurezza delle persone.
Un piano per garantire che le persone non si sentano, in nessun modo, come se stessimo per cacciare da questo Paese chiunque non sia bianco e inglese.
Tanti sono convinti di aver votato esattamente per quello, per poter dire a persone che magari sono state qui per vent’anni di andarsene.
Il nostro scopo è impedire che questo succeda, ma sopra ogni cosa, vogliamo che le persone tornino a sentirsi sicure qui, sentirsi a casa.
Ho notato che molte persone che scrivono sul gruppo chiedono di rimanere nell’anonimato. È preoccupante, perché lascia presupporre timori di minacce. Voi ne avete ricevute?
Abbiamo ricevuto un paio di brutti messaggi ridicoli, ma facciamo finta di niente. Ci impegniamo per garantire che tutte le informazioni siano protette e che l’identità di nessuno venga divulgata. All’interno del gruppo ci assicuriamo che nessuno sia vittima di bullismo o odio, abbiamo 30 moderatori e sono straordinari. Sono amici che si sono offerti volontari, e approvano tutti i post, per cui se c’è qualsiasi forma di negatività ingiustificata, viene eliminata. Stiamo cercando di tenere la comunità come un posto sicuro.
Casi di attacchi e brutte reazioni contro noi amministratori ci sono state — Sarah Childs, che ha fondato Worrying Signs insieme a me e Yasmin Weaver, è stata presa di mira da brexiter arrabbiati perché due giornali – tra cui l’Huffington Post – parlando del gruppo, hanno per sbaglio linkato alla sua pagina utente personale, e un sacco di gente le ha mandato messaggi diretti tremendi.
Non li prendiamo troppo seriamente, perché quando si viene trollati la miglior difesa è l’indifferenza — a differenza di come funziona nel mondo reale, dove ci sono così tanti modi per denunciare cos’è successo.
C’era un post ieri, dalla polizia del Sunderland, di una signora in un centro commerciale che è stata attaccata per la propria etnia e poi aggredita fisicamente. Il post raccontava che il colpevole era stato arrestato, anche se la vittima era immediatamente scappata, perché così scioccata dall’evento. L’uomo è stato arrestato grazie a tante persone che sono andate a testimoniare il crimine. Non erano loro le vittime, ma hanno chiamato comunque la polizia, e con le loro testimonianze sono riusciti a catturare l’uomo. È un episodio molto inusuale, lontano dai modi tipici degli inglesi: la nostra cultura non è questa, ma stiamo trovando il coraggio di dire, “No, adesso chiamo la polizia!”
Ci sono tante risorse che una persona può contattare, e cerchiamo di averle tutte linkate sul gruppo. È importante, perché questi sono crimini a tutti gli effetti.
L’atmosfera della Brexit chiaramente ha aggravato la situazione. Crede ci siano dei veri e propri responsabili di queste tensioni?
Credo che queste tensioni fossero preesistenti, e che esisteranno sempre. Ciononostante, personalmente riteniamo che la campagna del leave abbia – molto poco responsabilmente – aumentato la tensione. Hanno soffiato sul fuoco. Non hanno detto che tutti gli immigrati sono terribili, e che vanno attaccati, ovviamente, ma ci sono un milione di passi dal dire niente, e dire alla gente di far del male al prossimo. Hanno camminato sul filo del rasoio. È facile far esaltare la gente e poi dirigerla contro un obiettivo, ed è stata una cosa scandalosa, davvero scandalosa. Le conseguenze saranno durissime, e non so se riusciremo ad affrontarle come Paese.
È già qualcosa che se ne stia parlando, che lo si stia accettando come un problema vero.
È una situazione spaventosa. Dall’Europa è molto difficile capire cosa potrebbe succedere adesso. La libera circolazione è qualcosa di inconcepibile da mettere in discussione. E così tanti italiani sono nel Regno Unito, chiedendosi cosa ne sarà di loro.
Credo sia fondamentale che il Governo chiarisca subito che chi è già qui non verrà rispedito a casa.
Queste persone sono inglesi quanto noi — adoro che il nostro sia un Paese multiculturale, e tutte le persone che conosco la pensano così.
Troppe persone, aggressive, terribili, credono che chi non è “davvero” inglese non abbia diritti. Sono posizioni che ricordano gli anni Trenta e Quaranta. È terrificante.
Ma forse, se alziamo la voce, se facciamo in modo di tenerci al sicuro a vicenda, se continuiamo a parlarne e continuiamo a denunciarli, forse c’è una speranza di spingere questa ideologia al di fuori della conversazione nazionale.
Perché siamo migliori insieme, siamo più forti, tutti insieme.
Lo scambio culturale, il viaggiare, il vivere in altre nazioni, può solo arricchirci.
Tanti vorrebbero semplicemente tornare indietro nel tempo e annullare tutto! Ci sembra di vivere un incubo, e non è del tutto chiaro come sia successo.
Solo poche settimane fa Londra ha eletto un sindaco pachistano.
Sì, è super!
E poi il referendum.
Esatto! È così bizzarro. Sono ideologie così opposte: una completamente inclusiva e l’altra completamente nazionalista. Progetti di denuncia come il nostro – anche se, insomma, non siamo professionisti! – sono nati perché non ne potevamo più, dovevamo fare qualcosa. Non siamo tantissimi, ma se riusciamo a collaborare e trasformare le nostre preoccupazioni in energia, possiamo fare la differenza. Dobbiamo lavorare per organizzare tutti questi dati e portarli al Governo, in modo che non possa piú ignorare il problema. E questo è il nostro obiettivo, per le prossime settimane.