Un’associazione contro il genocidio yazida

Haider Elias è il presidente di Yazda, no profit che si occupa di aiutare la popolazione yazida in Medio Oriente e Occidente. Lo abbiamo contattato per fare luce sul genocidio che affligge la sua comunità.

Con il termine “yazidi” si fa spesso erroneamente riferimento a una minoranza etnica. In realtà, gli yazidi sono di etnia curda e così chiamati in quanto seguaci di un culto — il culto yazida, appunto — che affonda le sue radici nello Zoroastrismo, nell’Ebraismo e nell’Islam.

I seguaci dello yazidismo ad oggi si aggirano fra i 200.000 e i 300.000. La maggior parte di loro vive in Iraq, sui monti del Jebel Sinjar (al confine con la Siria) e nel Nord-Ovest del Paese. Sono sempre stati perseguitati, prima dai wahabiti che li hanno definiti “apostati,” poi dai sunniti per i quali sono “adoratori del diavolo,” e dopo ancora dai turchi ottomani. Un famoso motto yazida dice “eravamo 17 milioni, ora siamo 700.000,” a indicare le varie persecuzioni subite nei secoli dalla comunità.

Ultimamente si è tornato a parlare di loro – e più precisamente del genocidio che li riguarda – perché i seguaci dell’autoproclamatosi Stato Islamico di Al-Baghdadi hanno attaccato, massacrato e ucciso migliaia di yazidi sul Jebel Sinjar.

Il risultato dell’occupazione del Sinjar ha prodotto il trasferimento forzato di quasi mezzo milione di yazidi, sia all’interno dell’Iraq, sia in Paesi confinanti come la Turchia e il Kurdistan, e in Europa.

I membri della comunità hanno deciso di creare Yazda, un’organizzazione no-profit a sostegno degli yazidi, che divulgasse messaggi di sensibilizzazione in tutto il mondo, affinché il genocidio non fosse invisibile.

Sono riuscita a intervistare Haider Elias, presidente della no-profit.

“Yazda è nata negli Stati Uniti nell’agosto 2014, dopo gli attacchi di Daesh sulla catena montuosa del Sinjar. L’obiettivo principale era quello di supportare gli yazidi dopo il genocidio fornendo aiuti umanitari, cure mediche, educazione e soprattutto di perorarne la causa.”

Creare Yazda ha richiesto un grande impegno: “È stato difficile far conoscere l’organizzazione, ma grazie al duro lavoro che abbiamo fatto negli ultimi ventuno mesi abbiamo ottenuto un successo di cui siamo molto orgogliosi.”

Yazda non si occupa di supportare la comunità yazida solo negli Stati Uniti, ma anche in Medio Oriente. Ho domandato a Haider se fosse stato difficile trovare organizzazioni con cui collaborare in Iraq, nella terra occupata dallo Stato Islamico. Mi ha risposto così: “È difficile trovare diversi tipi di sostegno, ma da quando abbiamo iniziato a fare un lavoro non-stop, e dal momento cheabbiamo trovato le giuste persone per la nostra organizzazione, abbiamo sempre avuto successo.”

L’associazione sta portando avanti diversi progetti per fornire aiuti umanitari, sostegno alle famiglie nei campi profughi e a quelle che tuttora vivono nel Jebel Sinjar. Haider prosegue dicendo che sono riusciti a creare un progetto di psicoterapia con l’obiettivo di supportare le donne e le bambine che sono state vittime dell’ISIS. Mi racconta delle cliniche dove Yazda fornisce cure mediche ai profughi yazidi, dei progetti educativi che vogliono consentire ai ragazzi di concludere il loro percorso di studi, sia liceale sia universitario, e di un programma culturale che mira ad aiutare gli yazidi a preservare le proprie tradizioni, i propri riti e costumi.

La missione di Yazda, insomma, è quella di soddisfare i bisogni umanitari immediati della comunità yazida, per supportare il loro reinserimento a lungo termine, la liberazione e il ripristino delle loro terre. Inoltre, l’associazione si pone come obiettivo quello di documentare i crimini che sono stati perpetrati nei loro confronti.

E a questo proposito, Yazda ha ottenuto un grande successo: è riuscita a fare appello alla Corte Penale Internazionale e alle Nazioni Unite, avendo come portavoce Nadia Murad, ventunenne yazida rapita e vittima di violenze da parte dei miliziani dello Stato Islamico.

Nadia viene da Kocho, un villaggio sul Jebel Sinjar, in Iraq, vicino al confine con la Siria. Orfana di padre, viveva insieme alla madre e ai sei fratelli. Quando Daesh ha invaso il Nord dell’Iraq ed è entrato a Kocho, Nadia ha visto uccidere davanti ai propri occhi i suoi fratelli e la madre. Poi è stata portata via dai miliziani, a Mosul, dov’è stata venduta come schiava e violentata ripetutamente. Nadia è stata anche picchiata da parte dei seguaci di Al-Baghadi quando ha rifiutato di convertirsi all’Islam.

Qualche mese dopo è riuscita a fuggire e a trovare rifugio in Europa, dove ha raccontato la sua storia e quella di migliaia di ragazze e bambine tenute ostaggio dall’Isis, che subiscono violenze e torture ogni giorno.

In un’intervista al Corriere della Sera, Nadia racconta: “Mi fa star male ricordare ogni volta tutti i dettagli, ma non è nulla in confronto al dolore della mia comunità e di un’intera regione dell’Iraq e della Siria che ribolle nella guerra: è là che vedi il vero dolore, il mio in confronto ad esso non è così importante. Lo faccio perché in ogni angolo del mondo è necessario che si sappia quello che ci è successo, in modo che il mondo si renda conto della sofferenza di 3.500 donne e ragazze che sono tuttora in schiavitù e vengono stuprate ogni ora e ogni giorno, del genocidio subito da una comunità pacifica e impotente, come pure del dolore di tutte le minoranze e di chiunque non condivida l’interpretazione dell’Islam portata avanti dallo Stato Islamico.”

Si stima che 50.000 yazidi siano emigrati verso l’Europa, chiedendo asilo politico e cercando lavoro soprattutto in Germania.

Ho domandato a Haider se la migrazione degli yazidi verso l’Europa sia diversa dagli altri percorsi migratori. “Il caso degli yazidi è diverso rispetto a quello di altri gruppi. Chi viene dalla Siria o dall’Iraq è una vittima in quanto ha vissuto in una zona di guerra e ha dovuto schierarsi con l’una o l’altra fazione. Gli yazidi, invece, sono stati presi di mira per la loro identità. Sono stati perseguitati per secoli perché seguono un culto differente rispetto all’Islam.”

La maggioranza dei rifugiati yazidi ha trovato asilo in Germania, dove molti hanno parenti o conoscono qualcuno. “Non scelgono la Germania necessariamente in quanto sia il posto migiore, ma perché è quello con cui sentono una maggiore familiarità,” mi dice Haider.

Trovare nuove radici in Europa o negli Stati Uniti è difficile per chiunque, e lo è ancora di più – secondo Haider – per una piccola comunità, soprattutto se vittima di un genocidio.

“La comunità yazida in Germania non è sufficientemente attiva per perorare questa causa e per far familiarizzare maggiormente gli Europei con la nostra situazione. Dare sostegno aiuterebbe le persone a far conoscere gli yazidi. Yazda ha dato inizio a un progetto in Germania e sta cercando di espandere i propri sforzi. Abbiamo aperto un centro in Svezia, stiamo cercando di aprirne uno anche in Germania e abbiamo fondato la campagna ‘Nadia Murad’, che ha ricevuto riconoscimenti a livello mondiale.”

Yazda si dichiara felice del fatto che l’Unione Europea abbia riconosciuto il genocidio yazida, ma non lo ritiene sufficiente, dal momento che non si è tenuto conto di tutte le persone uccise, rapite e torturate dallo Stato Islamico. Murad Ismael, co-fondatore e direttore esecutivo di Yazda, in un’intervista dice: “Comprendiamo che tutte le minoranze religiose hanno sofferto enormemente sotto l’ISIS e che altri genocidi contro altre minoranze possono essere avvenuti, ma la nostra posizione è che ogni caso deve essere affrontato separatamente per rispettare i diritti di tutte le vittime ed essere giusti nel confronti di tutte le minoranze”.

Ma, accanto alle dichiarazioni europee, nessuno è intervenuto a difesa della comunità yazida.

Continuano a venire alla luce fosse comuni. 3500 fra donne e bambine sono ancora tenute sotto ostaggio dai seguaci di Al-Baghadi e vivono fra violenze e soprusi. Migliaia di Yazidi sono stati costretti ad abbandonare le proprie terre e vivono nei campi profughi.

In una dichiarazione Nadia Murad ha parlato di 400 donne yazide che, grazie all’addestramento delle combattenti curde, stanno progettando di liberare Mosul dall’ISIS, per restituire la libertà alle migliaia di donne rapite. Sono state le uniche a mobilitarsi.