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foto CC-BY-SA Soman

La notte del primo luglio si è consumata l’ennesima strage nella guerra tra Occidente e Stato Islamico. Così ci è stato raccontato, così ha detto il Presidente del Consiglio in TV, così va bene, al netto delle tante morti inutili, che dovevano essere evitate, questa volta di connazionali.

La situazione in Bangladesh è però notevolmente piú complicata, uno scenario che racchiude, in un solo Paese, la Storia dello scontro tra estremisti islamisti e la società civile, laica o atea.

È una Storia che in Bangladesh dura da 45 anni, e parte dalla guerra di liberazione del Bangladesh che spezzò in due il Pakistan. Il Paese non si riprende dallo scontro — la guerra che l’ha a tutti gli effetti generato. Resta diviso, polarizzato attorno a due fazioni, una laica e un’altra per uno Stato religioso. Difficile ricondurle strettamente a ideologie politiche occidentali, tra Jamaat-e-Islami, che ufficialmente ripudia ogni forma di ideologia occidentale, ma che è di fatto strettamente conservatrice, e la Lega Popolare, laica e progressista – diremmo – ma fortemente nazionalista, e capace di sporcarsi le mani di sangue quando lo ritiene necessario.

Nel 2008, la Lega Popolare Bengalese ottiene un risultato senza precedenti — nel contesto di una coalizione che comprendeva il Partito Nazionale del generale Ershad, di centro, e un gruppo di altri partiti di sinistra – ottiene il 48% dei voti, la coalizione il 57%.

Immediatamente il governo ha dovuto affrontare l’ammutinamento dei Bangladesh Rifles. Il governo ha reintrodotto la Costituzione del ‘72, compreso il secolarismo, e ha istituito un tribunale per i Crimini Internazionali per punire i collaboratori locali dell’esercito pakistano che si erano dimostrati colpevoli di crimini di guerra all’inizio degli anni ’70.

L’istituzione del tribunale è stata accolta con sentita approvazione da parte della comunità internazionale, dalle Nazioni Unite all’Unione Europea. Solo cinque anni dopo però, la realtà di dover processare per reati di quarant’anni prima, in un contesto altamente politicizzato, si fa evidente — i confini tra sospettati e opposizione politica diventano sempre più labili, le condanne a morte più frequenti e i processi si fanno sempre più complessi, spesso ingestibili.
È stato il caso di Abul kalam Azad, condannato a morte in absentia, di fronte ad una difesa incapace di presentare un singolo testimone in supporto alla propria causa.

Nel 2010, un cablo Wikileaks ha rivelato la decisione programmatica da parte delle forze di governo di risolvere il problema del jihadismo in un bagno di sangue.

La risposta da parte dei fondamentalisti islamici è stata immediata. In particolare Ansarullah Bangla Team, un’organizzazione legata ad al-Qaeda e alla giovanile del partito di opposizione Jamaat-e-Islami (di cui sono stati processati e condannati svariati membri), e Jamaat-ul-Mujaideen Bangladesh hanno scatenato un’ondata di violenza senza precedenti.

Dal 2013 al 2015 i gruppi agiscono secondo un modus operandi poco frequente nell’ambito del terrorismo islamista: colpiscono individui singoli, con precisione chirurgica. Personalità, blogger, giornalisti secolaristi e atei vengono colpiti in attacchi diretti, brutali. Accoltellati, fatti a pezzi, uccisi a colpi di machete.

Dal 2015 gli attacchi tornano a seguire il copione che normalmente associamo al terrorismo islamista — attacchi di gruppo, rivolti all’assassinio di figure secolariste, occidentali, personaggi pubblici. L’organizzazione è in ogni caso molto meno puntuale della macchina della morte di al-Raqqa, con frequenti dichiarazioni di pentimenti e a volte esplicite scuse, quando negli attentati venivano coinvolti innocenti. Lo scorso 20 maggio gli assassini di Mir Sanaur Rahman hanno rivelato alla polizia di averlo ucciso in seguito ad uno “scambio di persona.”

Il caos causato dagli attentati ha funzionato: seppur non interrompendo l’operato del tribunale, dall’anno scorso il Governo ha iniziato ad arrestare blogger e giornalisti che troppo si esponevano in attacchi contro l’Islam.

Ma le carneficine continuano:

21 febbraio 2016, un prete hindu e due suoi seguaci sono stati uccisi da seguaci dell’ISIS.
6 aprile, il blogger di centrosinistra Nazimuddin Samad viene ucciso per aver criticato l’Islam.
23 aprile, Rezaul Karim Siddique viene ucciso dal cosiddetto Stato Islamico perché docente universitario di Lingua Inglese.
25 aprile, Xulhaz Mannan e Tanay Majumder sono uccisi dall’ISIS. Mannan era il direttore di Roopbaan, l’unica rivista LGBT del Paese. Solo 10 giorni prima la polizia aveva cancellato una manifestazione in supporto alla comunità gay locale.
30 aprile, viene assassinato un sarto hindu, Nikhil Joarder.
7 maggio, viene assassinato un anziano sufi.
14 maggio, viene fatto a pezzi un monaco buddista da seguaci dello Stato Islamico.
20 maggio, il caso di Mir Sanaur Rahman.
25 maggio, ISIS assassina Mir Sanaur Rahman, un calzolaio hindu.
7 giugno, per vendicare tre combattenti assassinati dalla polizia, alcuni islamisti uccidono Ananda Gopal Ganguly, comune cittadino.
10 giugno, viene fatto a pezzi un manovale di un monastero hindu, Nityaranjan Pande.

Mentre l’Occidente raccontava l’attacco di Dacca, lo Stato Islamico assassinava un politico locale di Lega Popolare, Mong Shwe Lung Marma.

Come la notizia dell’attentato nel quartiere Gulshan di Dacca ha infiammato la facile retorica occidentale, inquadrare l’evento nel contesto di sangue quotidiano del Bangladesh lascia ammutoliti, senza poter rispondere con una soluzione facile, come è chiesto oggi alla politica.

La Storia del Bangladesh, tra secolarismo e fondamentalismo religioso, evidenzia soltanto quanto la radice del problema non sia la religione.

Erano sette rapitori, non sette suicidi, quelli del primo luglio.

Tant’è che tra le richieste rivolte in cambio della vita degli ostaggi chiedevano una via di fuga sicura. Insieme, i terroristi pretendevano il rilascio del leader di Jamaat-ul-Mujahideen, Khaled Saifullah, e il riconoscimento della missione della loro organizzazione nella diffusione dell’estremismo religioso.

La richiesta del riconoscimento dell’organizzazione ha un valore simbolico molto importante, che incastra l’operazione in dinamiche molto diverse da quelle che solitamente osserviamo nei panorami a noi ormai piú familiari di Medio Oriente e Nord Africa.

Chi in Occidente reagisce alla vista del sangue con la bava alla bocca dovrà prima o poi affrontare la realtà che al terrorismo di matrice fondamentalista non si può rispondere con la violenza — semplicemente perché con la violenza si può al massimo terminare l’esistenza di un’organizzazione, ma il fenomeno è mondiale, sistemico. L’ISIS  rappresenta un modello e in Medio Oriente, come altrove, l’accanimento non farà che accrescerlo.

Per l’Occidente la soluzione per risolvere la crisi in Bangladesh si rivelerà di massima semplicità, in pochi giorni, forse una settimana — tornando a ignorarlo.

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.