Tutti gli animali di Beppe Sala

Tra gelosie, veti incrociati e polemiche a non finire, la nuova giunta di Milano è al completo. Da Carmela Rozza a Maran, abbiamo passato in rassegna tutti gli inquilini della fattoria di Palazzo Marino.

Tutti gli animali di Beppe Sala

La squadra di Sala è fatta. Dopo i nomi, annunciati domenica 26 giugno, arrivano anche gli entusiasmi, i primi mal di pancia interni e i retroscena: negli ambienti vicini al centrosinistra milanese si mormora che Carmela Rozza alla Sicurezza proprio non piaccia. Troppo “sceriffa” per qualcuno. Inoltre, non le si perdona la “bravata” della campagna elettorale, quando ha imbrattato un’auto ferma in divieto di sosta durante un’iniziativa dedicata al decoro urbano. Per di più a favore di telecamere – che è stato in fondo il vero guaio. Gesto “goffo” e riuscito nell’improbabile impresa di mettere d’accordo le due sponde del Duomo, con la destra che gridava al “disprezzo della proprietà privata” e il “popolo delle spugnette” che alzava il ditino ammonendo: “Inqualificabile e imbarazzante.”

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Per la verità Rozza questa benedetta delega alla Sicurezza non la voleva, ma avrebbe gradito l’assessorato alla Casa. I desiderata di Carmela Rozza poggiavano su basi solide e carte in regola: un bacino di voti imponente in zona 9 e a Quarto Oggiaro; un passato da sindacalista del Sunia-Cgil; la collaborazione quotidiana con il consigliere di zona 8 Fabio Galesi, uno dei pochi dentro al PD a capire operativamente le periferie – forse perché ci vive da quasi 30 anni.

Erano tutti vantaggi competitivi a favore di Carmela Rozza, che però li ha colpiti e affondati con il più pericoloso dei suoi difetti: il carattere. Aspro e ruvido, per usare degli eufemismi. Potrebbe non contare e invece pare proprio che a Beppe Sala certe uscite non siano piaciute. Resta da capire se metterla alla Sicurezza sia stata una buona scelta. Dentro al PD e alle altre forze quasi tutti rispondono di no. Lontano dai microfoni, ovviamente, perché c’è da preservare le apparenze. Per quanto riguarda lei, nonostante i suoi difetti, non le si può certo imputare di farsi mettere i piedi in testa, scoraggiare o annichilire da qualche comare di corridoio.

Quasi per nemesi, il neo-vicesindaco Anna Scavuzzo – ex boy scout, mite renziana della prima ora, 2700 preferenze all’ultima tornata elettorale – piace a tutti, anche dalle parti di Sel, o quel che ne rimane. Scavuzzo vantava un credito con Sala: lo ha difeso a febbraio da coloro (pochi) che lo accusavano di aver lasciato buchi finanziari nel bilancio di Expo. “La vostra è una posizione prematura,” li ha sobriamente apostrofati. Posizioni premature perché il vero bilancio sarebbe stato redatto solo molti mesi più in là. Un po’ come a dire “avete dei pregiudizi.” E un po’ aveva anche ragione. Beppe Sala sembra aver gradito.

Maran prende l’ascensore e fa il salto di livello: l’ex galoppino di Penati passa dai Trasporti all’assessorato all’Urbanistica. Dove si giocano partite di peso sugli scali ferroviari, la riqualificazione di via Celoria, il progetto Giambellino e le famose 180 aree pubbliche abbandonate che i giornali hanno raccontato in primavera, sebbene l’elenco dei 180 immobili si trovasse in rete sul sito del comune di Milano sin dal 2013.

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Pierfrancesco Majorino conferma la sua forza – basta guardare alle preferenze per capirlo. Un peso specifico che non ci si sarebbe attesi da chi è arrivato terzo (su tre) alle primarie di febbraio. Sopratutto se si guarda al triste destino della seconda arrivata, la genovese ex europarlamentare Francesca Balzani. Al bilancio, al posto di “Francesca” – come scrive Luca Fazio, “si chiamano tutti per nome” – ci arriva Roberto Tasca: che dalla tasca estrae una laurea bocconiana, vari ruoli ai vertici di società pubbliche e non, consulente per le Procure e infine una carriera da docente universitario lontano da viale Bligny, a Bologna, dove insegna intermediari finanziari. Di economia ne sa, ma è pur sempre socio in affari dello stesso Sala dentro la società Kenergy, che si occupa di energia e fotovoltaico – un conflitto di interessi di cui pochi hanno scritto.

In tutto questo, Majorino se la gode. Per “Pier” ecco la conferma in largo Treves alle Politiche Sociali – uno degli assessorati culturalmente ed economicamente più rilevanti per la città. E un “suo” uomo al fondamentale assessorato alla Casa: Gabriele Rabaiotti, ex Presidente del Consiglio di Zona 6, architetto e ricercatore al Politecnico, che parla subito di “continuità con Daniela Benelli,” di rafforzare l’azione di Metropolitana Milanese sulle case popolari del Comune, di opposizione alla riforma Maroni sull’edilizia residenziale pubblica (che in settimana approda in commissione al Pirellone) e di combattere le occupazioni abusive.

A suo dire “circa il 20% degli inquilini milanesi che occupano abusivamente un appartamento, non possiedono i requisiti per la casa popolare.” Facile prevedere scontri con sindacati e comitati. Anche perché in realtà il dato citato dal neo assessore deriva da una stima fatta su tutta Italia e poi traslata pari pari su Milano, senza considerare le eterogeneità dei singoli territori. Per dirla tutta, il capoluogo lombardo oggi non sa di preciso chi ha e chi non ha i requisiti per gli alloggi popolari. Per due semplici ragioni: nelle case di Aler la documentazione fa pena e spesso, quando la si trova, è soltanto cartacea.

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Per quanto riguarda le case di proprietà del Comune, gestite da Metropolitana Milanese, non è ancora pronta l’anagrafe utenza, che avrebbe dovuto “mappare” tutti gli inquilini della città. Avevano promesso la sua realizzazione entro giugno. Siamo al 27 del mese e MM non ha ancora battuto un colpo.

Infine, ci sono da considerare i complessi abitativi gestiti da società la cui trasparenza lascia a desiderare. Come quelli in Viale Molise di proprietà Sogemi, la società pubblica che gestisce l’ortomercato e che oramai ha accumulato più infiltrazioni ‘ndranghetiste che frutta sui bancali.

Rabaiotti sostiene anche di non aver saputo quasi nulla della sua nomina fino a poche ore prima: “Sala mi ha chiamato in settimana proponendo la delega ai Lavori pubblici. Poi domenica è arrivata anche quella alla Casa.” La sua prima azione? Congelare le quote che detiene in KCity – impresa di riqualificazione urbana di cui è socio e che ha contribuito a fondare – per evitare conflitti d’interesse. E in effetti, già nella tarda serata di ieri, il suo profilo era sparito dal sito della società.

“Una giunta a trazione PD” scrivono e dicono quelli che se ne intendono di politica meneghina. Sarebbe più corretto dire una giunta a trazione Ada Lucia De Cesaris.

L’avvocato ex numero due di Pisapia e assessore all’urbanistica, “cacciata” in malo modo dalla giunta arancione nel luglio 2015 dopo una serie di “incomprensioni” con il primo cittadino, non è fra i nomi della squadra di Beppe Sala. O almeno, non lo è ancora, ma la sua mano nel disegno complessivo è palese: l’upgrade di Maran, la sorpresa Scavuzzo e anche la new entry Roberta Guaineri con deleghe a Turismo, Sport e Tempo libero, sono scelte orchestrate proprio da De Cesaris, che – dopo aver coordinato la Lista Sala in campagna elettorale e di fatto lanciato l’ex manager nella corsa alle primarie – a palazzo Marino ora potrebbe chiedere la sua fetta di torta. Il posto da City Manager, si mormora un po’ più che a bassa voce, al posto del dimissionario Giuseppe Tomarchio.

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Una strategia vittoriosa è stata quella dei Radicali di Marco Cappato: dopo aver appoggiato Giuseppe Sala al ballottaggio ora ottengono l’investitura ad assessore di Lorenzo Lipparini, con deleghe a Partecipazione e Open Data. È il secondo colpaccio degli eredi di Pannella, dopo che anche Emma Bonino è stata indicata come consulente del Sindaco, insieme all’ex magistrato Gherardo Colombo.

A proposito di collaboratori: una chiamata è arrivata anche per l’avvocato Mirko Mazzali, consigliere uscente di Sel e Guinness dei primati nei like annuali del Facebook meneghino. Sarà consulente alle Periferie con filo diretto al cellulare di Beppe Sala, che in questa fase ha preferito tenere per sé la delega e che inaugurerà la giunta con un gesto simbolico: la prima seduta del nuovo governo municipale si svolgerà in Giambellino invece che in piazza della Scala. Vedremo in futuro se c’è anche della sostanza o se si tratta di uno show estivo.

La nomina di Mazzali è stata accolta nelle maniere più svariate: c’è chi lo ama e lo supporta, c’è chi lo detesta da sinistra e dice che si è “venduto.” Lo detestano sopratutto Rifondazione e Basilio Rizzo, con il quale litiga da due anni perché chiedeva di regolarizzare lo storico centro sociale Leoncavallo, attraverso permuta (scambio di proprietà) fra Comune di Milano e la famiglia degli immobiliaristi Cabassi; mentre Rizzo parlava di “regalo ai Cabassi” e chiedeva invece un piano per la regolarizzazione di tutti gli spazi occupati di Milano.

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Infine, c’è chi detesta Mazzali da destra e, sopratutto, lo fa da un’eternità. Perché “è l’avvocato dei centri sociali.” C’è poco da aggiungere: ha difeso più volte nelle aule di tribunale militanti della sinistra antagonista  – e qualche volta ha pure portato a casa assoluzioni.

Le ultime partite si giocano fuori dal perimetro di Beppe Sala. Perché, del resto, non si vive di sola giunta.

Anche in consiglio comunale è tempo di scelte e polemiche.

Prima le polemiche: ci sono gli ultimi arrivati – o meglio “i primi fra gli esclusi” – coloro che non hanno preso un numero sufficiente di voti. Alcuni si lamentano. Altri come Maryan Ismail, somala e musulmana più che moderata, si dimettono dal partito scrivendo direttamente al segretario Matteo Renzi, e scaldando gli animi della sempre pacifica comunità islamica lombarda. C’è chi adotta il fair play e accetta sportivamente la sconfitta, anche perché sa che fra meno di due anni potrà rientrare in corsa. È il caso di Alessandro Giungi, ex Presidente della sottocommissione Carceri, il primo fra gli esclusi, per una manciata di preferenze. E poi c’è chi proprio non ci sta e piange miseria, come Daniel Nahum, responsabile Cultura del PD di Milano, che ha preso 600 voti e rotti ma non sono bastati. Gliene mancavano giusto 27. E si sfoga su Facebook contro la “mia comunità.” Che invece di votarlo il 5 giugno si è resa colpevole di passare la domenica al mare in Liguria. Abbandonando Milano al rischio “dell’estremismo islamista.”

Temiamo che il riferimento sia alla solita Sumaya Abdel Qader, la “velata” – come la chiamano i giornali – che ha tanti difetti, a cominciare dal fatto che non sa pronunciare la semplice frasetta “sono contraria all’Islam politico,” ma anche grandi pregi: quello, per esempio, di aver reso frizzante, assieme alla rimonta di Stefano Parisi, la campagna elettorale per il municipio – la più soporifera da quando si vota col suffragio universale.

Tuttavia, è il caso di rasserenare gli animi degli sbavatori d’inchiostro per professione: Al Qaeda non è ancora arrivata in via Larga. E no, non siamo la nuova Raqqa. In particolare dovrebbero rasserenarsi quei giornalisti segugi con la redazione in Cordusio che passano la loro triste esistenza a dossierare i nipoti e i cognati di Sumaya e a fare gli scoop con gli screenshot del PC.

I dossieratori denunciano che il Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano) — di cui Sumaya fa parte — e l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia) prendono finanziamenti dal Qatar. In realtà, è difficile risalire alla provenienza dei loro fondi — ed è proprio questo il problema. Certo, quando il temibile Qatar ha sborsato 1.2 miliardi di euro al costruttore Manfredi Catella e alla Hines Srl per comprarsi il rinnovato quartiere Porta Nuova non si ricordano particolari levate di scudi contro l’invasore del Golfo. Diciamo che ci sono petroldollari che profumano e altri meno: quelli per immobiliare e gentrificazione ci piacciono; quelli per le moschee no. Solo che provengono dallo stesso pozzo di greggio.

Nelle ultime settimane sono stati presi d’infilata anche gli ultimi problemi: il PD aveva bisogno di un nuovo capogruppo. Il più quotato era Filippo Barberis. E alla fine Barberis è stato. Giovane, ha condotto un’intensa campagna elettorale, per lunghi tratti spalla a spalla con Sala, e ha fatto incetta di preferenze nel partito. Quando gli si chiedeva qualche anticipazione sul futuro si mostrava scaramantico: “A forza di ripetere che sarò capogruppo c’è il rischio che i miei colleghi non mi votino.” Gli ha portato fortuna ma nel principio aveva ragione lui: già, perché il capogruppo lo scelgono gli altri consiglieri. E si sa che la politica è fatta di tanti aspetti: sangue e merda, come diceva Rino Formica. Ma anche tante gelosie. Sopratutto nel PD. E siamo solo all’inizio dei “five more years.”