Il risultato del referendum in Regno Unito sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea ha profondamente scosso la politica e i mercati globali. La politica britannica mainstream, i Tories di governo e il Labour, non è riuscita a spiegare ai propri cittadini perché dovessero votare Remain.
Non è un problema politico nuovo, quello che si trovavano ad affrontare, ma le solite fondamenta della retorica nazionalista: incanalare un disagio vero e innegabile, e trovargli una spiegazione semplice, oggi diremmo virale.
Eppure Cameron e Corbyn non si sono rivelati capaci di affrontare il problema di discutere questo malessere, preferendo concentrarsi sulle scorrette conclusioni che venivano presentate dai loro avversari.
Così si è lasciato che il discorso si banalizzasse su problemi intrinseci all’Unione Europea — i dettami politici, l’emigrazione interna, il costo al singolo Stato. Rifiutandosi di parlare dei tanti limiti e delle troppe colpe dell’attuale modello europeo, la politica britannica rischia di decretarne la fine.
L’angolo da cui Cameron non poteva partire — l’austerità.
Aprile 2009. Si stava scaldando la campagna elettorale — che poi avrebbe vinto — quando in una presentazione tenuta al forum dei Tories a Cheltenham David Cameron annunciò l’inizio della Age of Austerity, l’età dell’austerità.
Oggi, è difficile immaginare una dichiarazione politica piú miope, accolta con maggior tripudio. Il programma sarebbe poi stato effettivamente messo in moto dalla abominevole coalizione tra Conservatori e Liberal-democratici.
Malgrado oggi le ragioni per la corsa austera del 2009-2011 siano state ampiamente e più volte screditate, Cameron e una parte importante del Labour — quasi tutta la politica britannica insomma — sono troppo legati all’ideologia per poterla sacrificare, a prescindere che sia per genuina convinzione o per sola necessità.
L’analisi del voto rivela come il Leave abbia alla fine poco a che fare con questioni strettamente razziste o nazionaliste. Il voto è stato contro le attuali misure promosse o forzate dall’Unione Europea, misure assolutamente vere, ma che hanno giustificazioni ideologiche prima che fattuali — e per cui l’antipolitica e gli estremismi trovano narrative molto piú digeribili di quelle ufficiali.
Hanno votato Leave il 77% delle aree dove lo stipendio medio è inferiore alle 23000£, il 79% delle aree dove il mercato immobiliare ha visto un crollo al di sotto della media nazionale, l’86% delle aree britanniche dove il manifatturiero è la principale fonte di impiego.
Hanno votato Leave le aree che hanno sentito di più la crisi, dove dal 2009 si cercano risposte che non sono mai arrivate. Hanno votato Leave perché qualcuno li ha convinti che fosse l’unica, l’ultima speranza, e nessuno ha provato a spiegar loro se fosse vero il contrario.
Disegnare un profilo che vede anziani razzisti e spaventati contro il futuro ricco di possibilità dei giovani è una semplificazione che forse si poteva raccontare al bar prima del voto, ed è una semplificazione dello stesso tipo di quella che l’anno scorso ci spiegava come le pretese della Grecia fossero impossibili da accogliere — che i pigri greci dovevano mettersi a lavorare e star zitti e basta.
Uno Stato alla volta, l’austerità sta uccidendo l’Unione Europea.
Finché dall’Unione Europea non arriveranno nuove misure, un nuovo profilo per assistere i deboli, per impedire che gli stipendi crollino – o banalmente non crescano, come succede in Italia da quindici anni – di fronte all’offerta prodotta dall’emigrazione interna e l’immigrazione esterna, per dare di piú, sarà impossibile rispondere ai crescenti nazionalismi: la retorica di quei partiti è piú organica, piú comprensibile, a tutti gli effetti migliore.
Di fronte all’incapacità di rispondere con spiegazioni competenti e coerenti, i partiti politici tradizionali si rifugiano sostanzialmente in due vie di fuga:
- Cercare di apparire piú esperti, producendo giustificazioni inavvicinabili e percepite dal pubblico come da tecnocrati, inerentemente anti-democratiche;
- Comportandosi esattamente come i loro avversari — così al terrore per “gli immigrati che portano via i posti di lavoro,” riescono solo a rispondere con altrettanto farneticanti spiegazioni su come i mercati crolleranno, e con loro i posti di lavoro svaniranno, ancora piú di prima, ancora di piú che in alternativa.
Queste non sono risposte politiche. Non sono nemmeno risposte — solo rimbalzi nel tentativo di tenere al guinzaglio un elettorato sempre piú selvatico, agitato dai rumori nell’appartamento a fianco.
È finita l’Era dell’Austerità — ed è così tardi ormai che non importa nemmeno piú discutere se fosse giusto o meno applicarla, sette anni fa. Il pubblico è alle corde, e l’Europa dovrà impegnarsi ad essere piú presente, a spiegare effettivamente quali siano i benefici economici, quotidiani, di rimanere all’interno dell’Unione.
L’accesso a fondi, finanziamenti, deve diventare drasticamente piú semplice. L’attivazione di programmi comunitari di welfare e sostegno ai deboli e agli indifesi devono essere gestiti a livello continentale (a livello federale, si direbbe dall’altra parte dell’Oceano), e non lasciati nelle mani dei singoli Paesi.
È impellente l’Unione Europea ripensi come affrontare l’emergenza rifugiati, perché l’atteggiamento di razzismo strisciante tenuto finora non fa che nutrire quello bestiale delle forze nazionaliste.
L’Unione Europea deve accettare che il neoliberismo è una teoria, una fede per alcuni, e non un sostrato intrinseco della realtà. O si prepari a morire per la sua fede.