Foto per gentile concessione di Raul Pantaleo
“Ieri volevo vedere il tetto dell’ospedale dall’alto della torre dell’acqua. In un momento di pausa avevo pensato di salire per spaziare con lo sguardo su questa città che si nega. Solo un piccolo contrattempo mi ha trattenuto a terra. Ho poi scoperto che l’ultimo sventurato logista che era salito sulla torre per verificare una perdita d’acqua era stato preso a fucilate dai vicini che non volevano si guardasse nelle loro case.”
È così che Raul Pantaleo si rivolge a Erri De Luca in una lettera riprodotta nel suo ultimo libro: La sporca bellezza, indirizzi di futuro tra guerra e povertà, recentemente edito per i tipi di Elèuthera. Pantaleo è un architetto di fama internazionale, insieme a Massimo Lepore e Simone Sfriso è titolare dello studio Tam associati. Pantaleo e Tam associati hanno lavorato con Emergency per anni, collaborando alla costruzione di ospedali e cliniche, con relativi alloggi e spazi per la preghiera.
Pantaleo ci ha raccontato della sua esperienza come “architetto di guerra.”
Ci ha parlato di come si progetta contro la distruzione, di come si vive lavorando per Emergency, delle persone che vivono la guerra quotidianamente e dell’importanza dell’architettura come simbolo di un futuro diverso.
The Submarine: La sporca bellezza inizia con la sua esperienza a Kabul, dove ha convertito la struttura di una vecchia scuola in un ospedale per Emergency. Quali sono le differenti priorità di costruire un ospedale in guerra?
Pantaleo: Un lavoro di questo genere è molto chirurgico, parlando per metafora ospedaliera. Servono scelte secche, decise, senza esitazione — ci sono limitazioni di tempo, di risorse, di movimenti. Una delle caratteristiche di lavorare in questi contesti è la necessità di esercitare un immenso pragmatismo: si va all’essenza delle cose, e bisogna lasciare alle spalle il proprio ego da progettista. Non vuol dire lasciare alle spalle la propria creatività, ma la creatività è uno strumento al servizio di un obiettivo preciso: quello di dare risposte. È un modo completamente diverso di approcciarsi al progetto e personalmente lo considero l’unico modo fattibile, in generale.
Nel libro lei introduce più avanti il concetto di umanizzazione edile. Volevamo chiederle come si costruisce uno spazio accogliente con risorse e tempi così limitati.
La questione dell’emergenza, e noi l’abbiamo affrontata anche nei campi profughi, sembra costringere ad un approccio molto pragmatico che spesso porta a risultati completamente disumani.
Il grande lavoro che è stato fatto da Emergency, anche in contesti difficili, è quello di mettere il paziente al centro del progetto pur nell’emergenza e nella povertà.
Serve una risposta ai problemi psicologici di queste persone, che stanno soffrendo.
Il vero fattore che genera differenza è considerare comunque la qualità dello spazio, quello che io chiamo “bellitudine”, cioè l’attenzione alla qualità come un elemento fondamentale del processo di cura delle persone, che sia di cura fisica come psicologica. Bisogna far sì che questi diventino dei luoghi, e non soltanto delle cliniche o delle case.
La quotidianità della guerra: come si lavora e come si vive in Paesi come l’Afghanistan?
Io personalmente in alcuni ospedali ho seguito la costruzione, in altri solo la progettazione. Ovviamente per mia fortuna ho lavorato con un’organizzazione che è estremamente strutturata anche in luoghi molto critici, come l’Afghanistan, per cui anche la mia esperienza è molto strutturata, in un contesto in cui l’organizzazione era molto conosciuta e molto radicata. Altro discorso è stato anni fa, nel 2004 e 2005, quando abbiamo lavorato in Darfur — dove nessuno ci conosceva. Emergency in Afghanistan è un’istituzione, quasi tutti hanno un parente che ha avuto bisogno di un intervento. Si è benvoluti e rispettati, si è relativamente tranquilli. Detto questo, per chi progetta e per i logisti di fatto è proibito andare in giro, anche solo per cercare materiale. Ci si sposta solo per andare dall’aeroporto all’ospedale, dall’ospedale a casa – che spesso è di fronte, dall’altra parte della strada.
C’è chi fa questa vita per anni, ed è una vita difficile, da reclusi.
Finora abbiamo parlato di Afghanistan, ma lei è stato in molti altri Paesi di guerra e di alta tensione politica e sociale. Essere architetto di guerra — come cambiano il suo lavoro guerre diverse?
L’approccio è sempre lo stesso — totale pragmatismo di fronte ai problemi. Tu vai in un luogo che ha dei problemi e devi dare una risposta tecnica.
Il principio fondamentale è riconoscere il diritto delle persone di avere una cura adeguata, e dei luoghi adeguati. Un luogo ben ombreggiato, con un giardino, con dei bei colori, con un prato — un luogo affettuoso, è bello ovunque, e le persone lo capiscono. È un linguaggio universale.
Poi si può entrare nel dettaglio del diverso movimento tra uomini e donne, delle culture — però in realtà è una questione che ha a che fare con l’affettività dei luoghi.
Non dico che sia uguale dappertutto, ovviamente, anche perché sarebbe assurdo. Ma è una questione di cura delle persone, che parte da dettagli banali, come ricordarsi di fare un numero disedute sufficienti perché le persone – bambini, madri, anziani – si possano sedere, se sono in una sala d’aspetto!
Questa attitudine aiuta: se progetti con questo moto affettivo, in qualche modo il progetto, non dico che venga naturalmente, ma di certo viene con grande facilità. Ci si libera di tanti problemi: semplicemente faccio un luogo dove starei bene, dove farei star bene un mio parente.
Questo è uno dei principi base di Gino Strada: fare dei luoghi dove non avremmo problemi a far ricoverare nostrofiglio, nostra moglie, o i nostri genitori.
Che sia un Afghanistan, nella Repubblica Centrafricana o in Sudan — fare ospedali veri, non del terzo mondo.
Un problema inevitabile per un ospedale in un Paese in guerra: come ci si prende cura di persone che si considerano a tutti gli effetti nemici?
Gli ospedali sono luoghi neutri, luoghi di cura a prescindere da chi ci entra. Su questo Gino Strada ha fatto delle battaglie incredibili, soprattutto in Afghanistan.
Su questo si gioca la vera partita dei diritti — non è l’ospedale di qualcuno, è l’ospedale di tutti. Le armi rimangono fuori e chi entra i suoi problemi li lascia fuori dalla porta.
Nei nostri ospedali molto spesso è successo che nei letti ci fossero a fianco a fianco due nemici.
Poi spesso se due nemici si parlano capiscono che così nemici non sono, questo è il dramma vero della guerra. È la falsità che genera il concetto stesso di nemico.
Nella Sporca bellezza parla di edifici che diventano rottami, invece che ruderi, ed esprime un’opinione particolarmente marcata su un certo tipo di architettura contemporanea. Un’opinione che ci sembra chiaramente informata dalle sue esperienze di guerra—
Il principio base della guerra è di distruggere, le strutture e le persone. L’architettura ha un valore medicinale incredibile per chi subisce la guerra.
Quello che abbiamo imparato è costruire strutture che siano solide, nonostante si sappia che potrebbero passare di mano, esserci problemi come è stato in Darfur, però il principio è quello di costruire degli elementi solidi che dicano: noi crediamo nel vostro futuro, perché costruire implica tempo e risorse, e per investire tempo e risorse bisogna credere nel futuro.
Abbiamo imparato a costruire edifici che col tempo diventino ruderi e non rottami, sperando che il tempo sia in grado di assorbirli e trasformarli.
Quella del mondo occidentale è architettura liscia, senza serramento. Sono stato recentemente in Francia e così tanti edifici sono ridotti a rottami perché implicano investimenti pazzeschi in termini di manutenzione, che non appena vengono meno rendono gli edifici obsoleti in pochissimo tempo. È specchio della nostra modernità, molto fragile ed evanescente.
La nostra risposta in questi contesti è “pesante,” ha il peso della volontà di costruire un futuro.
È il lavoro che abbiamo fatto anche nei campi profughi in Iraq. Sono edifici, hanno il coraggio di essere edifici, nonostante siano stati fatti con gli stessi moduli prefabbricati. In qualche modo è la dimostrazione che all’interno dei limiti dati si può costruire un racconto diverso, un racconto in cui l’architettura fa da protagonista perché al mondo esterno dice una storia diversa da quella che le persone quotidianamente subiscono.
Lei scrive che in guerra l’architettura è il termometro della barbarie.
Sì, la distruzione dell’architettura è la prima cosa che si vede.
Ho vissuto da vicino, per così dire, stando a Trieste, il dramma della Ex-Jugoslavia: lo portiamo abbastanza inciso sulla pelle. È stato incredibile pensare come dei luoghi che abbiamo visto, in vacanza ad esempio, possano all’improvviso ridursi in macerie.
La guerra tende a distruggere gli elementi simbolo di un luogo, nel peggiore dei casi anche i monumenti. In tempi recenti lo abbiamo visto anche in Siria: l’accanirsi contro i monumenti, la bellezza, è il metro della barbarie più brutale che si possa immaginare.