Squallore, ribellione, distopia: settant’anni di Los Angeles al cinema

Only God Forgives di Winding Refn è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di rivisitazioni e interpretazioni dell’ineffabile città californiana.

Squallore, ribellione, distopia: settant’anni di Los Angeles al cinema

in copertina, Blade Runner

Dopo la breve pausa thailandese di Solo Dio perdona (Only God Forgives, 2013), Nicolas Winding Refn torna nella tentacolare Los Angeles con la sua ultima opera presentata a Cannes, The Neon Demon. Abbandonati i sobborghi periferici di Drive (2011), il regista danese apre le porte dello showbiz californiano, con le sue perversioni, i suoi desideri, ma soprattutto i suoi incubi. Tutta la filmografia del cineasta nordico si è sempre concentrata, direttamente o indirettamente, sul rapporto mitologico tra natura e uomo; adottando la violenza come rappresentazione dell’istinto naturale e la città come simbolo delle repressioni umane.

Prima la Copenaghen della trilogia di Pusher, poi la già citata parentesi thailandese tra le vie di Bangkok e infine il ritorno a Los Angeles, la metropoli che meglio incarna la dualità violenta tra l’essere umano e ciò che lo circonda. Ma il visionario Refn attinge con facilità da una tradizione iconografica lunga un secolo, periodo in cui la città californiana ha assunto ruoli e volti multipli, rappresentando via via i cambiamenti della società statunitense

In fuga dal monopolio newyorkese della Motion Patents Company, molti produttori indipendenti raggiungono Los Angeles intorno ai primi del Novecento, ritenendolo il luogo perfetto per le necessità del mestiere. Il mare, le montagne, il deserto, ma soprattutto la luce naturale, facevano della città un set a cielo aperto, pronto per essere sfruttato dai nascenti studios.

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Sunset Blvd, 1950

Il Noir in bianco e nero (1940 – 1950)

Fino alla seconda guerra mondiale la decisione di filmare in esterna rimaneva molto costosa per i produttori. La maggior parte del girato veniva prodotta in teatri di posa, che all’occorrenza potevano diventare città europee, sobborghi californiani o affollati centri città. Dagli anni Quaranta il progresso tecnico permette una maggiore dimestichezza con le riprese esterne, lasciando la possibilità ai registi di esplorare con la dovuta attenzione il mondo oltre le quattro mura teatrali.

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Double Indemnity, 1944

Era ovviamente un paesaggio in bianco e nero e le storie erano quelle di James M.Cain e Raymond Chandler: nasce il genere Noir e Los Angeles diventa la sua capitale cinematografica. Non più in balia di anonime scenografie, sono i personaggi dei film a sottolineare l’invadenza della città:

“Iniziò lo scorso maggio. Era più o meno la fine di maggio. Dovevo andare a Glendale per consegnare un’assicurazione su alcuni camion. Sulla strada del ritorno mi ricordai di un rinnovo nei dintorni di Los Feliz. Così decisi di fare un salto. Era uno di quei Calif. Case spagnole per cui tutti andavano pazzi 10 o 15 anni fa. Questa doveva essere costata a qualcuno almeno 30.000 dollari, se mai l’avesse finita di pagare.”

La voce è quella dell’agente assicurativo Walter Neff all’inizio de La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944), primo film noir diretto da Billy Wilder. La pellicola, tratta dall’opera omonima di Cain e adattata per lo schermo da Chandler, rappresenta una Los Angeles buia e sleazy (squallida, come si usava dire a quel tempo), lontana dalle finzioni dei tabloid.

Ben presto ad essere preso di mira è il simbolo cinematografico per eccellenza: Hollywood. Film come Il diritto di uccidere (In a lonely place, 1950) e Viale del tramonto (Sunset Blvd, 1950) si addentrano nelle lussuose ville di Beverly Hills e della Pacific Highway per svelare la decadenza morale dei proprietari. L’immagine del cadavere nella piscina di Viale del tramonto segna definitivamente la conclusione della finzione scenografica: il cinema aveva portato Hollywood a Hollywood.

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Il boom economico sposta le paure dell’America dalla criminalità alle angosce delle nuove generazioni; e così fa l’industria cinematografica. La rigidità del Griffith Obsevatory e della John Marshall High School nel film Gioventù bruciata (Rebel without a cause, 1955) si contrappone alla rabbia incompresa di James Dean. Il senso di soffocamento delle ambientazioni di Nicholas Ray è alleviato solo dalle scorribande in macchina lunga la costa. Los Angeles non era più – nel bene o nel male – il luogo in cui cercare fortuna, bensì quello da cui fuggire. Qualcosa si era spezzato e la città non poteva più tornare indietro.

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The Graduate, 1967

Il lungo addio (1960 – 1970)

Le macchine di Gioventù bruciata, che per la prima volta su grande schermo erano guidate da giovani ribelli, negli anni Sessanta diventano l’emblema della fuga dalla città e il rifiuto delle convenzioni del capitalismo. Iconica l’Alfa Romeo Spider guidata senza meta da Dustin Hofmann per le vie di Beverly Hills ne Il laureato (The graduate, 1967). Per la prima volta nella storia del cinema il viaggio diventa più importante della destinazione, strade e autostrade della California prendono il posto delle invadenti ville di Hollywood.

Zabrieskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni è il film manifesto del rifiuto dell’urbanizzazione di Los Angeles e in generale delle città americane. Dalle iniziali immagini del Richfield Oil Company Building nel centro di Los Angeles la pellicola si sposta nel deserto della Death Valley, luogo della ritrovata libertà. Certamente il biennio ‘69-‘70 rappresenta l’evasione dalle regole urbane, ma l’esplosione finale del film di Antonioni suggerisce la fine della rivolta antisistema più che il suo inizio.

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L’omicidio di Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, da parte della Manson Family distrugge ogni possibilità di redenzione della nuova società americana e del suo simbolo, Los Angeles.

Il cinema degli anni Settanta torna dunque a guardare al Noir come genere di riferimento. Ed è proprio a quattro anni dalla scomparsa della moglie che il regista di origini franco-polacche dirige uno dei suoi capolavori: Chinatown (1974). Il film, girato sotto i raggi del sole della San Fernando Valley, si ispira ad una delle vicende politiche più drammatiche del territorio, la California Water Wars. La Los Angeles di Polanski marcisce sotto il sole e con essa i suoi abitanti, le cui avidità e segreti non sono che l’allegoria dell’America di Nixon.

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Blade Runner, 1982

Una strada che non va da nessuna parte (1980 – 1990)

Il successo nel 1978 dello sparatutto Space Invaders marca l’inizio della golden age dei videogiochi. Influenzato dall’estetica fantascientifica e dai neonati arcade, il regista Ridley Scott decide di adattare un romanzo di Philip K. Dick per il grande schermo. Nasce così il film che più ha segnato l’immaginario distopico del cinema contemporaneo: Blade Runner (1982).

Nella Los Angeles del 2019, un investigatore privato viene assunto per dare la caccia a replicanti in fuga. Per quanto regia e recitazione siano di altissimo livello, è la nuova città ricreata per il film a rubare lo sguardo dello spettatore. “Nighthawks” di Edward Hopper si fonde ai tratti di Moebius e ai progetti dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia, producendo una versione a colori della Metropolis di Fritz Lang. La nuova Los Angeles è la visione di un futuro rovinato dall’accumulo e dalla sovraespansione e le sue strade, come quelle dei videogiochi, non portano da nessuna parte.

Contrapposto al surrealismo fantascientifico di Ridley Scott nel 1995 esce Heat – La sfida, diretto da Michael Mann. Il film, per quanto realista nella sua rappresentazione, trae enorme ispirazione dal capolavoro sci-fi: protagonisti alienati nei confronti di una città offuscata, illuminazione al neon e toni cupi.

La fine del millennio porta con sé una rivalutazione di Los Angeles come luogo in cui i rapporti umani sono ancora possibili: nel 1997 e 1998 escono rispettivamente Boogie Nights – L’altra Hollywood e Il grande Lebowski. Le due pellicole condividono la curiosità per le vite che si intrecciano nelle strade della metropoli, i drammi e gli amori dei tempi moderni in una città che è viva perché le persone che ci abitano sono vive.

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The Neon Demon, 2016

Nuova era (2000 – oggi)

Il nuovo millennio spazza via ciò che l’aveva preceduto. Mulholland Drive (2001), diretto da David Lynch, compatta al suo interno tutti quelli che erano stati gli elementi di distinzione delle pellicole losangeline e li frulla, ottenendo un risultato sconvolgenete. La Los Angeles di Lynch è, come tutti i luogi filmici del regista, una città ribaltata, le sue sembianze cammuffate, in sintesi un sogno reale. L’onirico prende il posto del reale e Lynch fa di Hollywood il suo palcoscenico surreale.

Come era successo per Blade Runner e Heat, anche dieci anni dopo vediamo contrapposto al surrealismo di Lynch il realismo urbano di Mann, con la sua pellicola Collateral (2004). Se Mulholland Drive era un viaggio nella psiche dei personaggi, il film di Mann è un vero e proprio viaggio notturno attraverso Los Angeles. Le riprese dall’alto ci dipingono una scacchiera in cui le persone sono solo pedine del caso. “A dire la verità ogni volta che vengo qua non vedo l’ora di andarmene, sembra tutto così disconnesso,” dice uno dei protagonisti del film.

Nightcrawler, 2014
Nightcrawler, 2014

La tendenza degli ultimi anni invece ha visto la città degli angeli diventare sinonimo di appariscenza e voyeurismo, con pellicole come Bling Ring (2013) e Lo Sciacallo (Nightcrawler, 2014). Il primo mette a fuoco ciò che succede davanti alla telecamera, lo star system hollywoodiano, il secondo concentra la sua attenzione sui retroscena morbosi del mondo dell’entertainment. In entrambi i casi la città non è che una trappola per le debolezze delle persone, spinte ai limiti dai propri desideri.

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Knight of Cups, 2015

In ultimo Knight of Cups di Terence Malick, ancora inedito nelle sale italiane, riprende il lato intimista della città, raccontando una Los Angeles sublime e astratta. Il lavoro del regista si avvale del contributo del suo ormai fedele direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, che ritrae la città californiana inondata di luce, annullandone i confini materiali. Come scrive Richard Brody nella sua recensione per il New Yorker: “Knight of Cups è proprio un film di Los Angeles, e presenta alcuni dei tratti più esteticamente ambivalenti del modernismo architettonico, come non succedeva dai tempi di Antonioni. In The Tree of Life i grattacieli si facevano beffe delle ambizioni del protagonista, e ne sottolineavano l’alienazione; in Knight of Cups, invece, Rick non può che deliziarsi tra le forme vertiginose e la luce brillante della città: torri di vetro e acciaio, atrii rivestiti in marmo, linee luminose per le strade, viste dalle auto in corsa.”

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Durante la conferenza stampa per The Neon Demon Nicolas Winding Refn ha detto: “Se ti guardi intorno, la realtà è che la bellezza è un’ossessione in crescita, anche se noi proviamo a razionalizzarla, politicizzarla, e imbrigliarla…”

Los Angeles racchiude in sé una bellezza che il cinema per decenni ha tentato di catturare, ma che, incapace di viverla, alla fine è riuscito solo a rappresentare. Per i più pragmatici, rimane sempre il documentario Los Angeles Play Itself, visione spudorata e sincera della città degli angeli.