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in copertina: Il corteo dell’ambasciatore veneziano Alvise Mocenigo dopo l’udienza papale nel palazzo del Quirinale

Nei decenni che precedettero la Rivoluzione francese si incrinò per la prima volta il rapporto tra governati e governanti, e forse non è un caso se la politica di oggi si richiama spesso, direttamente o indirettamente, a quell’esperienza storica.

Qualche giorno fa, in un clima da post-fuga-a-Varennes, la Lega ha richiesto a oltre 160 sindaci lombardi la rimozione del ritratto del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, essendo questo – secondo il segretario della Lega lombarda, Paolo Grimoldi – non più “un garante imparziale per le nostre più alte istituzioni democratiche” e quindi non in grado di “rappresentarci.” Così, proprio come a Luigi XVI (r. 1774-1792) dopo la fallita fuga del giugno 1791, anche a Mattarella sono state rivolte accuse di alto tradimento — poi rientrate poche ore più tardi — soprattutto da parte di Luigi Di Maio e il Movimento 5 Stelle.

Il paragone tra MS5 e Club dei Giacobini non è inedito e nemmeno troppo fantasioso, a pensare che il “sistema operativo” del Movimento è stato intitolato a Rousseau, il filosofo che ispirò proprio i Giacobini. Ma nel discorso politico delle ultime settimane gli echi tardo-settecenteschi si sono moltiplicati: Di Battista-padre ha minacciato il Quirinale che, se avesse continuato ad ostacolare la volontà popolare con i propri veti, i cittadini avrebbero finito con l’assaltare il palazzo “forconi alla mano,” rievocando esplicitamente la famosa presa della Bastiglia del 14 luglio 1789. Di Maio, dopo aver trovato un accordo con la Lega sul nome del premier per il “governo del cambiamento,” affermava che questo sarebbe stato un “amico del popolo,” prendendo in prestito il nome del giornale rivoluzionario più famoso e celebrato di Francia, L’Ami du peuple di Jean-Paul Marat (1743-1793).

Estendere un paragone (sempre azzardato, spesso buffo) tra il presente e gli avvenimenti del tardo settecento francese rimane un evergreen per ogni situazione di grave crisi istituzionale — proprio come quella in cui si trova l’Italia in questi mesi.

Nell’Italia del 2018, il linguaggio della politica dell’anti-establishment rievoca spesso e volentieri i tempi e i toni della lotta del Terzo Stato francese contro una monarchia intransigente, capace solo di porre veti al volere dei legittimi rappresentanti del popolo. Gli attacchi al sovrano francese (alla sua persona e alla istituzione monarchica tout court) erano anche il risultato delle decisioni poco avvedute di Luigi XV, che si era alienato il popolo rompendo un legame mistico che da secoli legava governanti e governati. Le scelte del re di Francia di voler tenere le amanti a palazzo, e implicitamente rifiutare confessione/eucarestia, offrirono le condizioni per la totale distruzione dell’istituzione monarchica decenni dopo. Le azioni che distinsero i Borboni di Francia non sono assimilabili a quelle di Sergio Mattarella e, conseguentemente, il parallelo tra M5S-Lega e Terzo Stato (così come definito dall’abate Sieyès all’alba della Rivoluzione) — certo ambito dalle parti italiane in causa — non può essere preso seriamente. Ma per quanto il presidente di una repubblica parlamentare, eletto da Camera e Senato in seduta congiunta, e il re di una monarchia, assoluta ed ereditaria, siano evidentemente agli antipodi l’uno dall’altro, entrambi rimangono capi di Stato. Ciò, quindi, permetterebbe di trovare nelle straordinarie vicende politiche del Settecento francese (in particolare nella “desacralizzazione della monarchia”) le radici europee di quell’ondata di risentimento nei confronti del capo dello Stato italiano e rappresentante dell’unità nazionale, a cui, nei giorni scorsi, abbiamo tristemente assistito.

Per quanto numerose esperienze “anti-istituzionali” si siano registrate già nei secoli precedenti la Rivoluzione francese, mai nessun evento fu così dirompente, al punto da voler distruggere ogni ricordo e vestigia di un “regime” ormai scaduto.

Solo pochi decenni prima della Rivoluzione, nessun ufficiale governativo si sarebbe mai sognato di rimuovere un’effigie del sovrano, accusandolo di non rappresentare più (per grazia di Dio) i propri sudditi, o, peggio ancora, di avvilire l’istituzione monarchica tutta… Pochi decenni dopo, tutto ciò poteva avvenire. Che cosa era successo?

Nell’Europa di Antico Regime, la stragrande maggioranza delle sommosse popolari, motivate per lo più dalla scarsità di derrate alimentari, si scagliava contro un capro espiatorio, come un ministro del re, che, subdolamente, avrebbe tramato alle spalle dell’ignaro monarca. Questo è, per esempio, il caso del Motín de los Gatos, un’agitazione madrilena, che, nell’aprile del 1699, portò alla destituzione del conte di Oropesa, ministro favorito del re Carlo II di Spagna (r. 1665-1700). Durante il diciottesimo secolo questa situazione andò lentamente mutando e il malcontento dei sudditi finì per indirizzarsi (o a essere indirizzato), sempre di più, contro la persona del sovrano stesso. L’apice si raggiunse, appunto, nella Francia rivoluzionaria.

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Destituzione del conte di Oropesa, autore sconosciuto

Secondo lo storico Robert Darnton, la prima vera “rottura” tra popolo francese e sovrano sarebbe già avvenuta decenni prima della Rivoluzione, durante il Regno di Luigi XV (r. 1715-1774). Per secoli si era ritenuto che i re di Francia, essendo stati unti con l’olio santo conservato nella cattedrale di Reims, fossero in grado di curare i sudditi afflitti dalla scrofola (una brutta forma d’infezione tubercolare) con il solo tatto (tocco taumaturgico). Dal giorno della sua incoronazione nel 1722 e per diciassette anni, Luigi XV “toccò” migliaia di malati, soprattutto nel giorno di Pasqua, dopo aver assunto l’ostia benedetta. Tutto sarebbe filato liscio se non ci fosse stata una condizione: per potere esercitare il sacro potere, il re doveva prima confessare i propri peccati e purificarsi. Se il nonno Luigi XIV (r. 1643-1715) è passato alla storia per la politica interna assolutistica e la politica estera aggressiva, Luigi XV viene probabilmente ricordato per le numerose amanti (tra le quali, le più famose, Madame de Pompadour and Madame du Barry). E fu proprio questa “passione” a generare un problema insormontabile, tale da ostacolare le “proprietà divine” del sovrano: infatti, i confessori del re si rifiutavano di ammetterlo al sacramento eucaristico, se prima non avesse respinto (e scacciato da palazzo) le amanti.

Dopo il 1738, Luigi si rifiutò di rinunciare ai propri amori — anzi iniziò ad esporre pubblicamente il proprio adulterio. Da quell’anno, il re non prese più la comunione a Pasqua e non toccò mai più un solo malato di scrofola. La lunga successione di amanti reali che seguì nei decenni segnò la fine del ruolo del re come mediatore tra il popolo di Francia e il loro Dio. Presto i sudditi iniziarono a disaffezionarsi a un re che sembrava essersi dimenticato di loro, del suo ruolo istituzionale e religioso.

Nonostante la censura, la polizia e la minaccia reale costituita dalle segrete della Bastiglia, una vasta produzione di libelli, manifesti e canzonette, che avevano come bersaglio il sovrano, circolavano per le strade di Parigi. Molti di questi testi erano accomunati da un linguaggio sorprendentemente duro, per un’epoca in cui i re venivano trattati come esseri sacri, ordinati a governare direttamente da Dio e dotati di proprietà taumaturgiche. Ma, come ricorda Darnton, Luigi XV aveva perso il suo “tocco” miracoloso. Così, in uno di questi libretti, veri e propri best-sellers d’antico regime, si poteva leggere che lo scettro del re era ormai debole come il suo pene.