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Possiamo sogghignare su quanto sia bello mettere Dario Hübner nel ritornello di un pezzo itpop, ma resta il fatto che sembra più un’operazione furbetta che reitera un meccanismo che ha funzionato.

Premessa: questa non è una recensione, quindi saltiamo tutta la parte su chi è Calcutta, la sua discografia precedente, le influenze del nuovo disco e tutte le altre informazioni da cartella stampa. In questo pezzo, come se fossi dall’analista, proverò a spiegare in primis a me stesso perché il disco nuovo — Evergreen — sia una piccola delusione.

Calcutta è a tutti gli effetti “il caso,” della musica italiana recente. Uno di quelli che non si vedeva da un pezzo. Facendo le dovute proporzioni, forse dai tempi dei Lunapop (nome che non cito a caso). Uno che nel giro di sei mesi è passato dall’anonimato ai sold out. Uno che dopo un disco e poco più (tralasciando Forse…) ha annunciato un live all’Arena di Verona. Non una cosa che accade tutti i giorni, insomma.

Ma non sono solo i numeri a far parlare: al netto del personaggio, Calcutta si è dimostrato un vero talento.   Una voce particolare ma potente e intonata, con una capacità melodica rara e un modo di scrivere tutto suo, capace di fare scuola. E questo è il punto. Il re mida dell’itpop italiano, l’artefice di tutto sto casino, il pastore che non a caso sulla sua copertina si circonda di tante pecorelle, come se fosse lui ad indicare la strada da seguire, con Evergreen si è perso in se stesso.

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Il nuovo disco nasce con tutte queste aspettative e se possibile le alza ancora di più dopo i primi due singoli, “Orgasmo” e “Pesto,” due canzoni validissime, senza se e senza ma, che hanno trasformato in una vera e propria ossessione l’idea di avere tra le mani il nuovo talento della musica italiana.

Il successo di Calcutta è stato merito alle bellissime melodie e dei testi così particolari, sempre in bilico tra l’assurdo e il geniale. In Evergreen manca il salto di qualità, manca la personalità. La ricerca melodica si perde in se stessa, torna e ritorna su ciò che già ha funzionato una volta. Vince negli arrangiamenti, il più delle volte bellissimi, ma pecca in scrittura.

In Evergreen manca il salto di qualità, manca la personalità. La ricerca melodica si perde in se stessa, torna e ritorna su ciò che già ha funzionato una volta

“Kiwi” è un esempio perfetto di quello che intendo: la strofa è la più bella di tutto il disco ma il ritornello non è all’altezza. Il pezzo rimane delicato, bellissimo a tratti, ma debole, come se mancassero le forze al momento necessario per chiudere il capolavoro.

Altro punto debole sono i testi. Se in Mainstream quello strano equilibrio ha fatto la fortuna di Calcutta, nel nuovo disco la solita ricerca del guizzo sembra più un esercizio di stile fine a se stesso. “Paracetamolo” e “Hübner” sono due esempi. Possiamo sogghignare su quanto sia bello mettere Dario Hübner nel ritornello di un pezzo itpop (e ridere di tutte le ragazzine che non hanno la minima idea di chi sia) ma resta il fatto che sembra più un’operazione furbetta che reitera un meccanismo che ha funzionato.

Da un paroliere in grado di fare sembrare la rima rom/YouPorn la più naturale del mondo ci aspettiamo un tessuto di parole che vada anche oltre la ricerca di un campo semantico originale e divertente. Non è quello, per Dio. Non può funzionare tutta la vita. Non è una cifra stilistica di per sé.

L’intero disco sembra oscillare tra la sicurezza del passato (“Briciole”) e la voglia di andare oltre, fare altro (“Nuda Nudissima”). Il tutto però senza un lume chiaro, con molte incertezze e pochi guizzi (eccetto i due pezzi accennati in precedenza). A poco serve appellarsi alla più classica delle giustificazioni: “Eh ma se cambi poi ti dicono che sei cambiato troppo, se resti uguale ti criticano perché non sei cambiato”. Le chiacchiere stanno a zero: quello che conta sono le canzoni. I gusti poi si possono discutere, ma un ascolto attento di questo disco non può non fare emergere delle pecche.

Critiche enfatizzate ancora di più dalle aspettative: un disco che sarebbe oro per molti di quelli venuti dopo Calcutta, può suonare deludente se è la prova di maturità di uno che ha dimostrato di essere un fuori classe.
Da lui ci si aspettava il nuovo Cremonini, che ad oggi ha firmato ancora una volta un disco bellissimo, di pop complesso ma immediato, come Possibili Scenari.

Ci auguriamo che sia il canto del cigno di un’epoca. Che tutto possa finire da dove è iniziato. Che Calcutta si liberi la testa e possa fare ciò per cui è nato, senza forse le troppe pressioni del caso: scrivere canzoni bellissime.


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