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I lavoratori delle piattaforme di food delivery si sono radunati ieri di fronte a Palazzo Marino per chiedere più tutele e diritti basilari.

Lo scorso 16 maggio un fattorino di Just Eat è rimasto vittima di un grave incidente a Milano, in zona Stadera. Secondo le prime ricostruzioni, il ragazzo — Francesco Iennaco, 28 anni — sarebbe stato investito da un tram durante un sorpasso azzardato. In seguito, lui stesso ha spiegato di essere caduto con lo scooter a causa del pavé dissestato tra le rotaie, mentre arrivava il tram dalla direzione opposta. I medici del Policlinico sono stati costretti ad amputargli la gamba destra all’altezza del ginocchio.

L’incidente ha riportato l’attenzione sulle condizioni di lavoro dei cosiddetti rider, ovvero i fattorini in motorino o in bicicletta che lavorano per le app di consegna a domicilio — di cibo o di altri prodotti. Iennaco in realtà lavorava con un contratto annuale da dipendente, quindi con uno stipendio fisso, assicurazione e tutele minime. A differenza dei principali concorrenti, Just Eat nella maggior parte dei casi si appoggia direttamente ai ristoranti o ad altri operatori della logistica per le consegne, e in passato ha manifestato anche posizioni critiche sulla mancanza di diritti nella gig economy (“l’economia dei lavoretti.”)

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Per la maggior parte degli altri lavoratori del settore, infatti, la realtà è ben peggiore: considerati dalle aziende alla stregua di liberi professionisti, lavorano senza le tutele più elementari — soltanto Deliveroo, poche settimane fa, ha annunciato che doterà i propri fattorini di una copertura assicurativa — costretti a procurarsi e a mantenere i propri mezzi di produzione — ovvero lo smartphone e la bicicletta/motorino — e a sottostare alle tempistiche e alle dinamiche orwelliane dell’algoritmo, che premia gli stacanovisti con un ranking più alto. A questo si aggiungono le continue modifiche unilaterali ai termini di servizio, l’estensione ormai generalizzata della paga a cottimo e lo spettro della “disconnessione” in caso di comportamenti indesiderati, com’è successo ai sei rider di Foodora che lo scorso aprile si sono visti dare torto dal Tribunale di Torino, che ha respinto il loro ricorso contro l’azienda.

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Mentre le piattaforme traggono vantaggio dall’incertezza giuridica e dalla difformità delle regole nei vari paesi in cui operano, questa sorta di “grado zero del precariato” ha prodotto molto in fretta una consapevolezza politica nei fattorini, che dall’Inghilterra al Belgio, passando per Hong Kong, da oltre due anni si organizzano e protestano sempre più spesso per chiedere maggiori diritti. Così sono diventati, anche iconograficamente, i capofila dei nuovi sfruttati del capitalismo avanzato.

Ieri pomeriggio davanti a Palazzo Marino si è tenuto un presidio organizzato da Deliverance Milano — un collettivo di lavoratori che si muove come un vero e proprio sindacato autonomo — per alzare la voce sulle proprie rivendicazioni all’indomani dell’incidente che ha colpito Iennaco: lo slogan, significativamente, è “Non aspettiamo il morto.”

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Un presidio non molto partecipato ma che — a meno di un mese dalla manifestazione del Primo Maggio, a cui i rider hanno partecipato in prima fila, poco dopo la firma della loro prima “carta dei diritti” a Bologna — risulta fondamentale per marcare le tappe di una lotta che si va costruendo a poco a poco. “Una lotta simbolo che riguarda tutti i lavoratori, non soltanto quelli delle consegne,” scandisce al microfono Angelo, uno dei portavoce della protesta. Insieme ad altri due rappresentanti alla fine del presidio salirà a Palazzo Marino per incontrare l’assessore alle politiche del lavoro Cristina Tajani, per chiedere “l’apertura di un tavolo politico con le aziende delle piattaforme digitali al Comune di Milano.” Quest’ultimo può agire come mediatore, ma non ha granché margini di intervento sulle forme contrattuali adottate — al massimo può intervenire sul lato delle norme igienico-sanitarie, pretendendo regole più strette sull’attrezzatura utilizzata per il trasporto della merce da consegnare.

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I fattorini puntano il dito sul contrasto paradossale tra la retorica iper-moderna delle piattaforme e le condizioni di lavoro ottocentesche che costituiscono il loro modello di business.

La stessa parola rider suona come il tentativo di edulcorare la realtà di un mestiere che non è certo nato nel ventunesimo secolo — per questo, preferiscono chiamarsi “fattorini.” Le loro rivendicazioni sono chiare e basilari: abolizione del cottimo e dei sistemi di ranking, copertura assicurativa, un monte ore garantito e una paga oraria minima, il rimborso spese per i mezzi di lavoro, un materiale tecnico più adeguato, un sistema più equo di assegnazione dei turni e l’applicazione di un contratto nazionale, che sia quello della logistica o dei trasporti. Le concessioni fatte dalle aziende, finora, sono quasi nulle — anzi, la situazione tende a peggiorare, dato che agli ultimi arrivati vengono applicate solitamente condizioni marginalmente peggiori.

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“Ottenere i turni è sempre più difficile,” mi spiega Anna (per sua richiesta, il nome è di fantasia), che lavora per Deliveroo da settembre. “La gente tende a non dare la disponibilità durante il weekend, per cui la piattaforma ha istituito un doppio punteggio, uno in base all’affidabilità, uno in base alle ore lavorate nel weekend. In base al punteggio, si ottiene l’accesso alla prenotazione dei turni il lunedì — quindi per riuscire a ottenere i turni si è costretti a lavorare di più il venerdì e il sabato.”

Carlos, anche lui fattorino per Deliveroo, racconta quanto può essere penalizzante il meccanismo dei ranking: “Stando sempre in giro, mi è capitato di perdere il telefono. Ho mandato un’email all’azienda per avvisare, ma mi hanno detto che non potevano farci niente, dovevo comprarmi un telefono nuovo o farmene prestare uno. Così il punteggio si è abbassato, e ora faccio fatica a lavorare.”

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Funziona più o meno allo stesso modo da Glovo, giudicato generalmente il servizio con le condizioni peggiori, dato che i fattorini non sono suddivisi in aree di consegna e possono trasportare letteralmente qualsiasi cosa. Lo conferma Massimo, che non fa le consegne come “lavoretto” per arrotondare, ma come occupazione principale. “Sto in giro minimo 8 ore, ma basta che mi fermi un weekend e si abbassa il punteggio. Ormai conosco il meccanismo, quindi cerco di alternare i periodi.”

Sempre in seguito all’incidente, per questo venerdì 25 maggio la Filt CGIL (Federazione Italiana Lavoratori Trasporti) ha indetto uno sciopero di “tutti i lavoratori che consegnano merce e cibo e cibo mediante l’utilizzo di cicli e motocicli indipendentemente dalla forma contrattuale che li riguarda,” ma è difficile immaginare che l’adesione sia ampia, non solo per la scarsa rappresentatività dei sindacati nella platea dei lavoratori della gig economy, ma perché banalmente la maggior parte di loro non può permettersi di fermarsi. “Io mi fermerò qualche ora, di più non posso,” dice Massimo, “e di sicuro non si fermeranno tutti i lavoratori stranieri che ora stanno impiegando in massa, che lavorano sempre e sono schiavizzati ancora di più.”

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La possibilità di rimpiazzare i fattorini virtualmente all’infinito, data l’offerta di forza lavoro più che abbondante, è il principale ostacolo sulla strada dei lavoratori che scelgono di organizzarsi e alzare la voce. “È importante che il lavoro abbia una dignità riconosciuta,” sostiene Anna. “Ora siamo soltanto numeri, visti solo dal punto di vista economico: tanto c’è un ricambio continuo, a loro non gliene frega niente. Ma essere un numero non dà dignità.”

Tramite la lotta sindacale, però, ottenere qualcosa è possibile: lo dimostrano le sentenze giudiziarie che altrove hanno dato ragione ai lavoratori, e le concessioni che lentamente cominciano a filtrare dalle aziende — come la già citata copertura assicurativa promessa da Deliveroo, o i diritti di malattia e maternità che Uber concederà ai propri autisti in Europa. Mario Grasso, sindacalista di UILTuCS presente al presidio, mi fa l’esempio di piattaforme che, in altri settori come il lavoro domestico, applicano già forme contrattuali più vicine a quelle dei contratti nazionali. “È la dimostrazione che qualcosa si può fare, finora è mancata soltanto la volontà — la responsabilità sociale d’impresa, diciamo così.” Certo, resta comunque una constatazione amara da fare: che nel 2018 si sia costretti a lottare per ottenere diritti che dovrebbero essere garantiti, e non più messi in discussione, da circa quarant’anni.


tutte le foto di Elena Buzzo

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