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Oggi le barriere coralline sono in grave pericolo: in tutto il mondo si assiste al fenomeno del “coral bleaching,” lo sbiancamento dei coralli. I coralli sbiancati sono maggiormente vulnerabili a malattie, anche letali. Forse però c’è qualche buona notizia.

I creatori delle meravigliose barriere coralline tropicali sono gli Anthozoa, nome scientifico dei coralli. Il termine deriva dal greco Anthos, “fiore” e Zoon, “animale.” Per secoli, infatti, gli uomini si sono domandati se i coralli fossero vegetali o animali. Agli inizi del Settecento, furono definiti “piante prive di fiori” rigide e pietrose: solo nell’Ottocento si arrivò alla conclusione che si trattava di “colonie dinamiche di animali.”

I coralli si originano dai polipi (letteralmente “esseri dai molti piedi”), animali a corpo molle che secernono una carbonato di calcio (CaCO3), una sostanza utile per formare lo scheletro corallino. Fermi ancorati alla scogliera, i polipi si fanno comodamente servire dalla corrente marina che trasporta gli organismi e il materiale sospeso di cui si nutrono (figura 1).

I polipi si riproducono dividendosi più volte. In situazioni avverse, come per esempio in caso di sovrappopolamento, questi animali rilasciano nell’ambiente migliaia di spermatozoi e uova contemporaneamente, durante l’alta marea. Le larve che si originano vengono trasportate dalle correnti e vanno a depositarsi su rocce diverse, dove si trasformano in nuovi polipi, che cominciano da subito a dividersi, creando diverse colonie. Tutti questi processi formano le immense barriere coralline: la più vasta e famosa è la Grande Barriera che si estende per 2300 chilometri al largo della costa del Queensland (Australia nord-orientale).

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Figura 1. Anatomia del polipo di un corallo.

L’importanza di queste barriere, in mare, è enorme. Esse, infatti, offrono riparo e protezione ad una grande quantità di organismi, come invertebrati e pesci. Questi ultimi, a loro volta, sono indispensabili per il mantenimento della barriera. Un esempio è dato dal pesce pagliaccio — il celebre “Nemo” della Disney — che vive all’interno degli anemoni di mare, dove trova rifugio per sfuggire ai predatori. In cambio, scaccia gli intrusi e ripulisce l’anemone dai parassiti.

Le barriere necessitano di acque limpide con scarsissime quantità di materiale sospeso e acque molto calde. Per questa ragione, si trovano solo in mari tropicali e subtropicali, dove c’è una temperatura minima dell’acqua di 20°C.

Attualmente, però, le barriere coralline sono in grave pericolo: in tutto il mondo, dalle Hawaii alla Nuova Guinea, passando per le Maldive si assiste al fenomeno del “coral bleaching,” lo sbiancamento dei coralli. I coralli sbiancati sono maggiormente vulnerabili a malattie, anche letali.

Secondo la maggior parte degli studi la principale causa è il cambiamento climatico. Lo stress dovuto a questo fenomeno porta il corallo ad espellere le zooxantellae, responsabili dei loro meravigliosi colori (figura 2). Le zooxanthellae sono piccole microalghe che vivono sopra il tessuto del corallo: il corallo fornisce alle alghe un ambiente protetto e i composti necessari per la fotosintesi. Per ricambiare il favore, le alghe producono ossigeno e aiutano il corallo a rimuovere i rifiuti.

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Figura 2. Schema illustrativo del “Coral Bleaching”.

Le temperature delle acque si sono alzate di più di 0,6°C rispetto alle medie del ventesimo secolo (figure 3).

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Figura 3a. Temperatura media globale della superficie del mare, 1880-2015 (Fonte: EPA).
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Figura 3b. Cambiamento della temperatura della superficie del mare, 1901-2015. (Fonte: EPA).

Un altro problema è l’acidificazione degli oceani. L’aumento dell’inquinamento da CO2 da parte dell’uomo e delle sue attività provoca un abbassamento del pH con conseguente maggiore acidità dell’acqua e un calo degli ioni carbonato ( CO3) in essa disciolti, utili per la formazione dello scheletro corallino. Inoltre, le barriere coralline sono minacciate anche dall’uso delle ancore e dall’overfishing, un insieme di tecniche di pesca insostenibili nei confronti dell’ecosistema marino, tra cui ad esempio la “pesca a strascico”, o l’utilizzo di veleni per stordire e catturare i pesci destinati agli acquari.

Uno studio della James Cook University a Townswille, Australia, ha ulteriormente dimostrato l’enorme impatto dovuto all’inquinamento della plastica. Il contatto con la plastica espone i polipi ad una grande varietà di microrganismi patogeni (batteri, protozoi e funghi) che trasmettono malattie alle colonie. Tutto ciò danneggia a catena la sopravvivenza delle altre specie che vivono in questi luoghi. La stessa Grande Barriera Corallina Australiana, per esempio, ha perso in media il 35% dei coralli, come conferma uno studio di Terry Hughes, della James Cook University (figura 4). Questo deperimento mette a rischio la vita di altre specie dell’area marina protetta, tra cui il già citato pesce pagliaccio.

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Figura 4. Mappa delle perdite di coralli negli anni 2016 e 2017 nella Grande Barriera Australiana (Fonte: Yale 360).

Una buona notizia?

Un annuncio del NOAA del gennaio scorso sembra dare un sospiro di sollievo. Dopo una lunga fase di ricerca, gli scienziati hanno potuto appurare, grazie a nuovi dati forniti dai satelliti, un graduale rallentamento del riscaldamento delle acque. Le ultime previsioni sembrano dunque indicare che anche lo sbiancamento si stia fermando in tutti e tre gli oceani. La conferma ufficiale arriverà comunque fra sei mesi, quando usciranno i risultati del monitoraggio dell’andamento della temperatura.

Quello che possiamo fare nel frattempo è adottare un comportamento di vita sostenibile e rispettoso verso l’ambiente. Eliminare e/o limitare l’inquinamento e l’overfishing possono essere soluzioni per tentare di ripristinare l’equilibrio naturale: conservare e proteggere le barriere coralline significa salvaguardare gran parte delle specie marine che dipendono dal corallo.


In copertina: foto CC via Flickr.

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