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in copertina, foto CC Scatto Felino via Flickr

La condizione di arretratezza dal punto di vista dei diritti in cui si trova tuttora il sistema penitenziario italiano risponde all’inerzia della politica su questi temi.

L’8 gennaio 2013 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo condannava l’Italia per trattamento inumano e degradante dei detenuti. La sentenza concludeva l’odissea legale di sette carcerati detenuti a Busto Arsizio e Piacenza. I magistrati europei invitavano il paese a intervenire in particolare sul problema del sovraffollamento, introducendo pene alternative al carcere e un sistema di ricorso interno nazionale. Una sentenza storica per il sistema penitenziario italiano, congelato alle condizioni stabilite nel 1975, e che aveva posto il paese su dei binari di rinnovamento, o così doveva essere — si era trattato di un momento verità per il paese, in cui una ministra della repubblica, Paola Severino alla Giustizia, aveva dichiarato che si sarebbe battuta perché “le condizioni dei detenuti fossero degne di un paese civile.” (Sottinteso: non lo sono)

Ieri a Roma l’Associazione Antigone ha presentato il XIV rapporto sulle condizioni di detenzione — un’approfondita disamina della situazione delle carceri italiane, che l’associazione, impegnata sin dagli anni Ottanta “per i diritti e le garanzie del sistema penale,” cura ogni anno. Il rapporto si basa sui dati e sulle testimonianze raccolte nel corso di 86 visite effettuate in altrettante carceri italiane (su 190 totali), equamente distribuite tra il Nord, il Centro, il Sud e le isole.

I numeri descrivono una situazione ancora emergenziale, a partire dal dato più evidente: il sovraffollamento. Contrariamente al luogo comune secondo cui “in carcere non ci finisce nessuno,” nel corso dell’ultimo anno il numero dei detenuti è aumentato di circa 2000 unità, mettendo in crisi strutture penitenziarie già da tempo oltre i limiti — come Como, che ha un tasso di sovraffollamento del 200%, e Taranto, con un tasso di sovraffollamento del 190%. A marzo 2018 i detenuti totali nelle carceri italiane risultavano 58.223, di cui il 34% non sta scontando una pena, ma si trova in custodia cautelare in attesa di una sentenza definitiva. Le donne costituiscono soltanto il 4,12% della popolazione carceraria.

I detenuti stranieri si distinguono dagli italiani soprattutto per la tipologia di reato commesso — meno frequenti tra gli stranieri i reati contro la persona, più frequenti quelli connessi alle leggi sulle droghe — e per la lunghezza della pena inflitta: il 7,1% dei detenuti stranieri si trova in carcere per condanne fino a un anno, contro il 4,9% del totale. Allo stesso modo, i detenuti stranieri sono tendenzialmente più giovani di quelli italiani.

Come sottolineano gli autori del rapporto, non c’è alcuna correlazione tra i flussi migratori e l’ingresso in carcere di cittadini stranieri: dal 2003 al 2018 la presenza di stranieri residenti in Italia è più che triplicata, ma il loro tasso di detenzione è diminuito di quasi tre volte.

Il dato è particolarmente significativo per le comunità straniere residenti da più tempo nel nostro paese, come quella romena, il cui tasso di detenzione è passato dallo 0,33% nel 2013 allo 0,22% nel 2018.

Viceversa, la sovrarappresentazione di alcune nazionalità all’interno della popolazione carceraria è dovuta spesso all’alto numero di individui non censiti — perché costretti alla clandestinità; pesa molto l’incidenza dei reati per droga — per il 38,9% si tratta di stranieri — e, non da ultimo, l’elevato numero di individui in regime di carcerazione preventiva, applicata più spesso agli stranieri, che sono il 37,7% del totale dei detenuti in attesa del primo giudizio. A fronte di questo quadro, i mediatori culturali nelle carceri italiane sono solo 223, in molti casi assunti non a tempo pieno e sotto–pagati.

Dopo la condanna del 2013 da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, la situazione è parzialmente migliorata sul fronte dell’edilizia e dello spazio concesso ai detenuti: la maggior parte delle celle di chi si trova in regime di media sicurezza è attualmente aperta per un minimo di 8 ore al giorno, così da permettere una certa libertà di movimento all’interno dei corridoi e nelle altre celle (in precedenza, i detenuti erano costretti a passare dentro lo spazio ridotto della cella fino a 22 ore). Ancora gravemente insufficienti sono però le condizioni di abitabilità: 7 degli istituti visitati da Antigone non avevano un impianto di riscaldamento funzionante, 37 erano senza acqua calda, 50 senza docce in cella (previste per legge).

All’apertura delle celle non hanno fatto fronte in misura sufficiente le attività rivolte a “riempire di significato il tempo della pena,” che dovrebbe essere una delle finalità centrali del sistema penitenziario. Solo il 23% dei detenuti partecipa a corsi scolastici di qualsiasi grado, dall’alfabetizzazione all’universitario, mentre nel 43% degli istituti presi in considerazione non è previsto alcun corso professionale. Tra le altre componenti della vita “fuori dalla cella” si registrano progressi significativi, anche se con notevole variabilità da istituto a istituto — spazi per la socialità, per la visita di parenti e familiari, passeggi, palestre e campi sportivi — mentre rimangono veri e propri tabù, come il diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti.

La condizione di arretratezza dal punto di vista dei diritti in cui si trova tuttora il sistema penitenziario italiano risponde all’inerzia della politica su questi temi. “Il 2017 avrebbe dovuto essere l’anno della svolta,” scrivono gli autori del rapporto, “e invece resterà l’anno della disillusione.” Disillusione in gran parte dovuta alla riforma varata dal governo lo scorso mese, dopo infiniti rinvii e rimaneggiamenti del testo.

Proprio quella riforma offre lo spaccato più chiaro di quello che potrebbe essere un governo 5 stelle – Lega. Sotto lo stendardo unito della “certezza della pena” i due partiti si sono trovati vicini come forse mai prima nel proprio giustizialismo virulento, e solo contro i poveri.

La questione carceri è uno dei fronti su cui la frammentarietà multiforme del Movimento 5 Stelle si fa più evidente. Sul blog di “Giustizia” dei Parlamentari 5 Stelle non si parla di condizioni delle carceri — nemmeno riallacciandosi ai temi dell’indulto su cui fecero tanto baccano nel 2013dallo scorso giugno 2017.

La riforma non tocca in nessun modo “la certezza della pena” — un concetto di per sé già iperconservatore — ma mira a ridurre il problema autoalimentante della recidività, allargando la possibilità di applicazione di pene alternative alla detenzione. In Italia il 70% delle persone che esce di prigione torna a delinquere, un dato che testimonia che il sistema penitenziario attuale serva a pochissimo: è una struttura di sospensione di persone dal paese, che non permette di costruire un recupero reale dei detenuti.

Attualmente la riforma, approvata dal Consiglio dei Ministri per il rotto della cuffia a legislatura già conclusa, è ancora lettera morta: manca il parere fondamentale delle Commissioni giustizia di Camera e Senato ed è importante che arrivi entro il 3 agosto, data di scadenza della delega.

Pochi giorni fa il Consiglio superiore della magistratura ha fatto appello direttamente al Parlamento per spingere verso l’approvazione, ma il provvedimento è tra i primi che Matteo Salvini ha subito promesso di cancellare qualora andasse al governo.


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