ney york 52

New York 52 è il viaggio di Bianca Giacobone attraverso la New York multiculturale del ventunesimo secolo: una collezione di momenti cittadini, una piccola guida turistica, il tentativo di andare oltre la superficie, un quadro incompleto ma coinvolgente della metropoli più famosa del mondo.

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Cosa si cela dietro ai perfetti meccanismi di un Late Show, quali sono i retroscena e le dinamiche che dominano il dietro le quinte? Per scoprirlo, siamo andati a vederne uno per la nuova puntata di New York 52.

La mattina quando mi sveglio e non c’è nessuno in casa mi piace preparare il caffè e berlo con latte e poco zucchero seduta al tavolo della cucina, mentre guardo su YouTube i video dei migliori momenti dei Late Night Show andati in onda la notte prima. Il New York Times ne fa una selezione giornaliera, intitolata “Best of Late Night,” fatta per chi non vuole passare le tarde ore della sera davanti alla televisione, o per chi, come me, la televisione non ce l’ha. Mi piace ridere alla feroce costanza delle battute su Trump e mi piace il rituale.

Non ho mai davvero amato le mattine, quando la mente assonnata e restia all’attività, ma stabilire un rituale mi aiuta a strisciare fuori dalle coperte. In ogni luogo in cui ho vissuto ho inconsciamente stabilito un rituale diverso: il “Best of Late Night” è per la cucina semi-buia della casa di Brooklyn. E quale rituale migliore per gli Stati Uniti, dove i Late Shows sono pilastri della televisione e l’idea dell’intellettualmente sacro David Letterman continua a gettare luce sugli altri presentatori che sono rimasti. Nessuno è gigantesco e bravo quanto lui, ma gli show sono comunque intelligenti, divertenti e piacevoli da guardare.

Così, quando mi sono accorta che ottenere un biglietto (gratis) per la registrazione di uno di questi show non era poi così difficile, sono andata su internet e me ne sono procurata uno. Ho scelto il mio preferito, il “Late Night Show with Stephen Colbert,” e il pomeriggio dello stesso giorno mi sono messa in coda davanti alle porte dell’Ed Sullivan Theatre, su Broadway, sotto una gigantesca scritta luminosa che scandisce il nome del presentatore: Colbert.

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Assistere alla registrazione di uno show televisivo è un’esperienza strana, e affascinante — per una serie di motivi che esulano dallo show in sé. Lo show è fatto per essere trasmesso in televisione ed è principalmente sulla registrazione televisiva che si concentra: il pubblico è fondamentale ed è partecipe, ma di sicuro se si vuole fruire dello Stephen Colbert Show al suo meglio si può restare comodamente seduti sul divano di casa propria. Se si vuole, invece, scoprire cosa c’è dietro le quinte, ed andare in bagno in momenti prestabiliti, guidati da un esercito di stagisti in giacca a vento rosso fuoco, allora sì, ne vale la pena.

Se si riesce, con un colpo di fortuna somministrato dagli ingranaggi misteriosi dell’internet, e procurasi un biglietto PRIORITY, allora l’ingresso allo show è garantito, a condizione che si arrivi prima delle quattro del pomeriggio. Gli altri sfortunati aspiranti spettatori con biglietto normale aspetteranno fuori dal teatro nella speranza che ci sia qualche seggiola rimasta dopo che tutti i priority e i vips sono stati scortati in postazione. Il privilegio del PRIORITY non vuol dire che non si debba passare un considerevole tempo in coda, nella lobby grigiolina del teatro, rintronati da cinque televisioni che proiettano vecchi episodi del Colbert show senza audio.

L’esperienza attenua l’entusiasmo, cosa di cui gli organizzatori sembrano essere perfettamente coscienti, perché una volta seduto tutto il pubblico, prima che si inizi a registrare, un comico prende il palco con l’unico compito di far riscaldare gli animi, e ricordare a tutti che si è lì per ridere e battere le mani. È il warm-up guy, figura professionale di cui non conoscevo l’esistenza, Paul Mecurio, in divisa americana (cappellino da baseball e t-shirt) e la preoccupante tendenza a tirare in mezzo gli spettatori. Passa lo sguardo rapace sulle file di gente seduta, decidendo chi prendere di mira, mentre il teatro scintilla delle luci di un set televisivo, e piume di pavone caleidoscopiche vengono proiettate sul soffitto.

Il nome di Stephen Colbert lampeggia ovunque, e il suo mezzobusto sorridente è proiettato sulle pareti tra finestre che ricordano quelle di una chiesa. Che posto strano, sono quasi in difficoltà a descriverlo.

Una volta che Paul Mecurio ha fatto il suo dovere, e abbiamo sorriso e capito che bisogna esclamare con gioia e ridere a squarciagola, è il tempo dello stage manager, che ci istruisce sui nostri fondamentali compiti di pubblico. Quando lo vediamo roteare per aria un copione o un pugno (a seconda della disponibilità), e quando le televisioni che stanno tutto intorno lampeggiano la scritta rossa “APPLAUSE,” applaudire è quello che dobbiamo fare, e con forza, magari alzandoci in piedi, lanciandoci in varie dimostrazioni di partecipazione e ondeggiando la testa al ritmo della musica. È tutto finto e forzato, penso, ma alla fine non lo è, perché l’imbarazzo di doversi dimostrare così allegri mentre si è circondati da sconosciuti e davanti alle telecamere svanisce, una curiosa euforia cala sul pubblico e alla fine quando si ride lo si fa di pancia, e per davvero.

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Dopo lo stage manager è il turno della band, e dopo la band del protagonista, Stephen Colbert, elegante, professionale e compiaciuto proprio come lo si vede in televisione (e d’altra parte è in televisione). Monologo, tre ospiti (e prima di ognuno un ricercatore apposito che gli riassume chi, come, dove), e poi si abbassa il sipario. La registrazione in sé non è poi lunga come pensavo.

Si viene congedati in fretta e fuori del teatro si sbattono le palpebre straniati alla luce del sole. Dentro, ingannati dalle fotografie notturne alle spalle del presentatore, ci si convince facilmente che sia calato il buio, e che sia una “late night” vera e propria. Da piccola, ma nemmeno troppo, pensavo ingenuamente che lo sfondo fosse vero, e che i Late Night Shows venissero filmati ai piani altissimi di chissà quale grattacielo, con le telecamere puntate su splendide e ampie vetrate aperte sulla città. Quelle viste mi affascinavano tantissimo. Anche mentre guardavo Colbert fare il suo lavoro con alle spalle la distesa buia di Central Park e accanto la facciata di qualche grattacielo tutta piena di luci, mi è piaciuto pensare fosse vero, e fossimo tutti sospesi a vertiginose altezze sopra Manhattan, a ridere e applaudire ogni volta che la scritta lampeggiante ce lo ordinava, ma con sincerità.

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