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The Submarine è media partner ufficiale della seconda edizione del Festival di fotografia Riaperture di Ferrara. Abbiamo intervistato due fotografi del programma ufficiale del Festival: Camilla De Maffei e Stuart Paton.

Camilla De Maffei è tra i 13 fotografi selezionati dal Festival e presenta un lavoro sul delta del Danubio: il fiume più lungo d’ Europa, il delta più esteso d’Europa e uno dei confini dell’Europa stessa.  

Nel corso della nostra intervista non ci siamo scambiati immagini in quanto non è ancora possibile vedere il progetto di Camilla. Lei stessa ci spiega il perché: “È la prima volta che il progetto Delta vede la luce. Ci ho lavorato per tre anni e mezzo, è stato un processo lungo e molto intricato anche perché con gli anni il mio modo di osservare e di fotografare è cambiato, si è evoluto o adattato all’essenza del progetto. Il risultato sono state tantissime immagini e linguaggi diversi. Da qualche mese ho iniziato il processo di editing per il libro, insieme al collettivo DiscipulaNon è stato facile affrontare il materiale, selezionare e semplificare. Abbiamo fatto fatica ad arrivare a una base di circa 300 immagini da cui partire per pensare il libro. Come è naturale, poi, mano a mano che si lavora ci si addentra nella storia e il linguaggio più coerente per raccontarla si definisce in modo quasi naturale. Siamo però ancora nel mezzo del processo e non esiste ancora una selezione definitiva.”

“Impossibile riassumere il progetto in 20 immagini ed essere sicura di aver scelto quelle giuste.”

Procediamo un po’ in libertà con l’intervista.

Va bene!

Sappiamo che vivi a Barcellona e che hai passato diverso tempo nell’area balcanica e in generale nell’est Europa. Da cosa sono dettati questi movimenti? Interessi, occasioni?

Ho studiato Filosofia a Milano e sono finita a Barcellona per caso, per fare un Erasmus di sei mesi. Ricordo che il giorno in cui sono partita non avrei mai immaginato che non sarei più tornata. Vivo a Barcellona ormai da 16 anni, qui ho cominciato a studiare fotografia, a farla, a pensarla e a condividerla con una generazione di fotografi curiosi e aperti, con cui posso dire che sono cresciuta.

Le tue origini italiane?

Sono nata e cresciuta a Cles, in Val di Non. Mio padre è trentino, mia madre invece è sarda. Sono molto legata a entrambi i territori, anche se il Mediterraneo è la mia vera passione. A Barcellona ho avuto la possibilità di vivere vicino al mare, di vederlo tutti i giorni. Non potevo che restarci.

E nei Balcani invece?

Anche i Balcani li ho scoperti quasi per caso nel 2009 grazie a un lungo viaggio in macchina, con due amiche.  Siamo partite da Venezia con l’idea di arrivare in Grecia, fermandoci in tutti i paesi che incrociavamo strada facendo. Una delle tappe era Sarajevo, città di cui mi sono innamorata a prima vista. Ricordo di essere rimasta a bocca aperta davanti a quell’universo nuovo, completamente indecifrabile ed allo stesso tempo profondamente familiare. Ho sentito da subito la necessità di conoscerlo meglio, di approfondire e vivere una città così complessa. Questo desiderio mi ha spinta a ritornare e poi a lavorare ad un progetto fotografico che è durato quasi due anni.

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Immagino tu stia parlando del progetto The Visible Mountain.

Esatto. The Visible Mountain è frutto della stretta collaborazione con una delle compagne di quel viaggio, l’antropologa italiana Caterina Borelli. Il desiderio di tornare in Bosnia era una volontà comune ed è sempre stato legato all’ambizione di creare un progetto insieme. Eravamo alla ricerca di una storia che ci permettesse di riflettere sulla situazione della Sarajevo di oggi, vent’anni dopo il conflitto. Per farlo abbiamo scelto di approfondire il caso del monte Trebevic, attratte dal potere simbolico di un luogo storicamente legato alla città e che — in quegli anni — sembrava esser stato completamente dimenticato dai cittadini.

Com’è stato lavorare con un’antropologa?

Mi piace molto lavorare in gruppo. Collaborare con qualcuno mi permette di confrontarmi ed essere ancora più aperta quando osservo una realtà che non mi appartiene. Caterina poi è quasi una sorella per me. Grazie ad una borsa dell’Università di Barcellona è riuscita ad arrivare e stabilirsi a Sarajevo sei mesi prima di me. All’inizio del nostro viaggio non c’era niente di conosciuto o familiare fra i boschi del Trebevic; solo con il tempo, vivendo giorno per giorno questa montagna, siamo riuscite ad abituarci. L’approccio antropologico è interessante perché è lento, delicato e paziente. È necessario vivere un luogo per elaborare domande che scavano davvero in profondità. Il lavoro di Caterina mi ha fornito degli strumenti teorici imprescindibili per analizzare più a fondo la storia e il presente del Monte. Le necessità operative di Caterina non hanno ostacolato le mie, piuttosto è sorto un dialogo creativo fra le due discipline. Ognuna ha dato all’altra quello che di positivo poteva dare, e credo che il risultato sia molto interessante. Mi sono sentita libera di lavorare su questa storia in modo molto personale, perché sapevo di avere una ricerca teorica alle spalle solida.

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Avete vinto qualche premio con questo progetto?

Il progetto ha ricevuto alcuni premi, ma soprattutto è stato esposto moltissime volte. La cosa che più mi sorprende è che ancora oggi (quasi sei anni dopo), continua a suscitare interesse. Ci siamo chieste spesso perché. Crediamo che la chiave sia proprio la sua essenza poetico-antropologica e, forse, il fatto che racconti Sarajevo attraverso i boschi della sua montagna più importante, senza per questo mostrare  la città.


img3Questo è stato il primo dei progetti che ti ha permesso di legarti a quei territori. In seguito hai lavorato sul corso del Danubio, fino ad arrivare a questo ultimo lavoro che parla esclusivamente del delta del fiume.

Proprio mentre mi trovavo a Sarajevo ho avuto la fortuna di incontrare Eugenio Berra che all’epoca era il direttore di Viaggiare i Balcani, un’associazione dedicata allo sviluppo del turismo responsabile nell’Europa Sud-Orientale. Eugenio ha avuto l’idea di organizzare una crociera culturale e gastronomica lungo il Danubio e mi ha incaricato di seguirli nelle fasi organizzative per documentare l’itinerario. Abbiamo compiuto varie spedizioni in Ungheria, Serbia, Bulgaria e Romania. Anche se si trattava di un incarico molto specifico, Eugenio mi ha concesso una libertà estrema e ho potuto rappresentare le varie tappe del viaggio con il mio linguaggio. I nostri spostamenti erano molto veloci e ovviamente è stato pressoché impossibile creare con quei luoghi i vincoli profondi come invece ero riuscita a fare in Bosnia. In quelle occasioni avevo la sensazione di non soffermarmi abbastanza, di restare sempre prigioniera della superficie e delle prime impressioni. É stata comunque un’esperienza fondamentale che mi ha permesso di approfondire il mio legame con i Balcani. Percorrere il Danubio e vedere il paesaggio cambiare insieme alla mia idea di Europa è stato illuminante.

Sul Delta come ci sei arrivata?

Sul Delta sono arrivata da sola, in un secondo momento, spinta dalla curiosità di vedere la fine del Danubio, il luogo della sua morte. In questa seconda fase ho deciso di fermarmi e cominciare un nuovo progetto. Il Delta del Danubio è il più grande delta fluviale europeo, un enorme labirinto naturale che si estende per circa 3500 km. Situato tra Romania ed Ucraina è il punto più a est dell’Ue, separato dal resto del continente da un’immensa barriera naturale di canali, sabbia e giunchi. Si tratta di un territorio estremamente periferico e metaforicamente molto potente.

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A questo punto ti direi di parlare proprio del progetto sul Delta. Si tratta di un lavoro che, questa volta hai realizzato in autonomia.

Ho realizzato il mio primo viaggio sul Delta nel 2014 con un’idea ben precisa: continuare la ricerca cominciata in Bosnia. Mi interessava esplorare e raccontare come si vive l’Europa da uno dei suoi confini più estremi. Mi sembrava che il Delta offrisse una prospettiva ideale per riflettere e mettere in dubbio molti luoghi comuni legati all’identità europea. Con il tempo però il progetto è cambiato.

I viaggi successivi, quel continuo e ossessivo andare e tornare, mi hanno lentamente condotto al centro della storia. E, più che analizzare questioni legate all’identità europea, mi sono trovata a scavare nella mia di identità; riflettere sui miei limiti, le mie paure, i miei sogni e le mie origini. La solitudine si è rivelata un ingrediente essenziale.

Ricordo ancora il primo giorno che sono sbarcata a Sulina, il paese più importante del Delta. Credo di non essermi mai sentita così disorientata e lontana da tutto ciò che mi era familiare. Quell’enorme senso di vuoto da combattere è stato il motore per andare avanti ed esplorare ancora. Avvicinarmi, sentirmi a casa, conoscere e dominare l’intrico di canali si è trasformato nel mio unico obiettivo. Un’esperienza che mi ha condotto di certo a pormi domande molto più specifiche e interessanti: cosa significa abitare il Delta e soprattutto, come si abita un labirinto?

Come descriveresti questo paesaggio?

Si tratta di un paesaggio radicale, sia in senso fisico che in senso psicologico. Prima ho fatto cenno al labirinto, proprio perché la struttura del Delta ricorda quella di un labirinto, perché è sempre uguale a sé stesso. Tutte le sue parti si ripetono, e qualunque luogo potrebbe essere un altro luogo. Canali, laghi e alberi si ripetono in maniera ossessiva all’interno del paesaggio. E poi ci sono chilometri e chilometri di giunchi, gialli in inverno e verdi d’estate. 

Conoscere a memoria le sue interiora è l’unico modo per dominarlo davvero. Per chi invece ne ignora i meccanismi interni, è solo un’estensione di terra bagnata, mobile, priva di consistenza reale, non esplorabile né vivibile. Un immenso paesaggio geograficamente nullo che si impone come un vuoto monumentale, senza connotati, presente ma assente, perché in nessun modo si può possedere.

Nel 1991 la regione del Delta è stata nominata patrimonio dell’Umanità, cosa ha significato per gli abitanti di questa zona?

Purtroppo quello che l’Europa ha inteso come una forma di protezione del territorio ha generato terribili ostacoli nella vita quotidiana della popolazione che viene percepita come la prima minaccia contro l’equilibrio ambientale da salvaguardare. Il libero accesso alle riserve naturali del territorio è stato severamente regolato e limitato, come per esempio nel caso della pesca, un’attività di sussistenza tradizionale che occupa più del 80% della popolazione.

Dove vivono gli abitanti?

Oggi, che io sappia, ci sono circa 14.000 abitanti sparsi tra i canali. Piccoli villaggi isolati, difficilmente connessi fra loro, spesso circondati dal ghiaccio in inverno. Fra questi il paese più grande è Sulina, situato alla confluenza tra il braccio centrale del Danubio ed il Mar Nero. In passato Sulina è stata la capitale del Danubio, la sede della Commissione danubiana, uno dei progetti politici più interessanti dei primi del novecento, perché ha portato vari stati ad associarsi nell’amministrazione di un patrimonio comune, il Danubio. È per questo che Sulina è ancora popolata di piccoli edifici meravigliosi, anche se oggi molti sono in rovina e coperti di polvere.

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Passiamo al tuo quotidiano: a Barcellona hai un laboratorio attivo da diverso tempo, cosa proponete e cosa proporrai durante il workshop che terrai a Ferrara durante il Festival Riaperture?

Ho fondato El Observatorio nel 2011 con Eugeni Gay, un caro amico e un incredibile fotografo. Il nostro obiettivo era quello di proporre un’alternativa alle scuole fotografiche classiche. Credo di poter dire che ci siamo riusciti. Più che una scuola, El Observatorio è un laboratorio dedicato all’insegnamento e alla creazione fotografica, un progetto in costante evoluzione che si è affermato come uno spazio dove incontrarsi, sperimentare, parlare di fotografia, riflettendo in modo critico. L’idea è promuovere un tipo di fotografia intesa come il risultato di un processo soggettivo, di un’esperienza propria, sincera e originale, ed è proprio su queste basi che si fonda tutto il nostro programma formativo. Il dialogo e la creazione collettiva sono alla base di tutti i corsi, e questo perché una delle nostre priorità è quella di  evitare la tendenza di definire la fotografia in modo univoco. Non ci interessa incasellare, definire. Puntiamo ad aprire, a non proporre mai schemi, a vivere la fotografia attraverso la relazione con altre discipline.

7 anni di vita sono già un ottimo riconoscimento.

Sì, tra l’altro si tratta di un progetto autofinanziato, autogestito, nato e cresciuto senza nessun appoggio. Oggi mi sembra incredibile pensare che El Observatorio sia riuscito a sopravvivere ai momenti peggiori della crisi spagnola; di certo è una delle più belle imprese della nostra vita. Anche perché siamo partiti davvero da niente. L’unico patrimonio a disposizione erano le nostre idee. Oggi invece abbiamo uno spazio che funziona ed è la somma delle diverse esperienze dei fotografi che invitiamo a collaborare. Nel corso di Fotografia Documentaria d’Autore, il più conosciuto della nostra proposta formativa, le persone devono sviluppare un progetto personale durante dodici mesi. Viviamo insieme a loro tutte le fasi creative, della concezione di un’idea iniziale fino all’editing finale. Ogni tre settimane ci riuniamo attorno ad un tavolo e si guardano le foto di ognuno, si edita in gruppo, tutti condividono il proprio processo di evoluzione  e partecipano a quello degli altri. Spesso le sessioni sono profondamente emotive, si ride e si piange perfino. Questo è il bello in fotografia: “darlo todo” come si dice in spagnolo. Questo è anche l’essenza del workshop che ho proposto a Riaperture. Non ci sarà lo stesso tempo naturalmente, ma il dialogo e la riflessione in gruppo saranno i cardini principali. Come si vive la creazione di un progetto, quali sono le sue fasi, che tipo di esperienza implica.


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Fotografa freelance, vive a Barcellona. Dal 2009 concentra la sua produzione nell’area dei Balcani, dove sviluppa progetti a lungo termine volti ad approfondire i temi legati all’ identità, il paesaggio e la frontiera. La Montagna Visibile, un progetto realizzato a Sarajevo con la collaborazione dell’antropologa Caterina Borelli, è stato finanziato dal CONCA nel 2010 ed ha ottenuto vari riconoscimenti internazionali tra cui il Gran premio della Giuria, il Premio Exchange ed il Premio del Pubblico durante il festival Les Buotographies di Montpellier. Parallelamente realizza diversi progetti che esplorano l’universo femminile. Smoking Women, un progetto che racconta le storie di vita di donne anziane che esercitano la prostituzione a Barcellona, è stato premiato ffei.comdal Conca nel 2010.

Nel 2014 è stata selezionata da PDN – Photography District News of New York – tra i 30 fotografi emergenti dell’anno. Nel 2016 è tra i 20 artisti under 40 finalisti per il Premio Cairo. La sua serie Habitare è esposta al Palazzo della Permanente di Milano.

I suoi lavori sono stati pubblicati dal New York Times, Osservatorio sui Balcani, Periòdico de Catalunya, Metropolis, Emergency, Positive Magazine, de Ojo de pez.

Nel 2011 fonda e coordina El Observatorio, uno spazio di creazione fotografica che ha sede a Barcellona.


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