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Il caso dello Sri Lanka, dove per contrastare le violenze contro i musulmani il governo ha temporaneamente oscurato i social network, è particolarmente istruttivo.

Mentre in Europa e negli Stati Uniti esplodeva lo scandalo legato a Cambridge Analytica e Facebook tornava al centro del dibattito pubblico per le problematiche relative alla sorveglianza e alla tutela dei dati personali degli utenti, in Sri Lanka il social network si è trovato ad affrontare una crisi più circoscritta, ma altrettanto indicativa dei suoi potenziali effetti sulla realtà e, soprattutto, della sua ostinazione a non volersene assumere la responsabilità.

Per la prima volta dalla fine della guerra civile nel 2009, il 6 marzo scorso il governo dello Sri Lanka ha imposto lo stato d’emergenza a causa dell’escalation di violenza tra la comunità singalese, di religione buddista, e la minoranza musulmana, che rappresenta circa il 7% della popolazione. L’ostilità tra i due gruppi etnico-religiosi è emersa con particolare gravità almeno sei anni fa — con i primi attacchi contro le moschee — ed è connessa all’ascesa di formazioni nazionaliste buddiste, come la BBS (Bodu Bala Sena, ovvero Forza speciale buddista), che hanno trovato nei musulmani un facile bersaglio per la propria retorica razzista.

Uno dei post presi come esempio dal rapporto del CPA del 2014 sull’hate speech in Sri Lanka
Uno dei post presi come esempio dal rapporto del CPA del 2014 sull’hate speech in Sri Lanka

Nel giugno 2014, dopo una grossa manifestazione anti-musulmana organizzata dai leader della BBS, una serie di rivolte scoppiate in varie città nel Sud-Ovest dell’isola causarono almeno 4 morti e 80 feriti, e migliaia di persone furono costrette ad abbandonare le proprie case. Da allora, l’odio settario ha continuato a covare sotto la cenere, per tornare a esplodere in forme violente a partire dallo scorso autunno e poi più decisamente a febbraio, quando si sono riviste scene simili a quelle di quattro anni fa, con assalti alle moschee, negozi gestiti da musulmani e automobili private date alle fiamme nell’est del paese.

Il copione è sempre lo stesso: i pogrom “spontanei” — in realtà spesso coordinati dai gruppi estremisti e con la tacita tolleranza di forze dell’ordine e politici locali — scoppiano dopo la diffusione della notizia, vera o presunta, di un crimine di qualsiasi genere commesso da un musulmano (nel giugno 2014 si trattava di un semplice alterco tra automobilisti), che suona come la prova provata, o la goccia che fa traboccare il vaso, di quanto i suprematisti singalesi ripetono in continuazione, accusando i musulmani di ogni sorta di nefandezze: vandalismi contro siti buddisti, conversioni forzate all’Islam, e soprattutto il piano di una sostituzione etnica dei singalesi (vi dice niente?).

A scatenare le rivolte di inizio marzo, che hanno avuto come epicentro il distretto centrale di Kandy, è stata la morte di un camionista singalese aggredito da quattro giovani musulmani. Lo stato di emergenza è stato revocato soltanto il 18 marzo, dopo dodici giorni, con un bilancio di due morti, circa 300 arresti e 450 tra case e negozi di musulmani dati alle fiamme.

La novità è che, per gestire la crisi, il governo di Colombo non si è limitato a impiegare la polizia e l’esercito nelle aree interessate dalle violenze: il 7 marzo, il giorno successivo alla dichiarazione dello stato d’emergenza, l’authority delle telecomunicazioni del paese ha bloccato l’accesso ai principali social network — Facebook, Instagram, WhatsApp e Viber — con l’obiettivo di ostacolare la diffusione dei messaggi di odio inter-etnico.

La decisione è stata presa a causa della gran quantità di post virali apertamente razzisti e incitanti all’odio che Facebook sistematicamente mancava di rimuovere, nonostante le segnalazioni. A suscitare preoccupazione sono state soprattutto le notizie false di crimini commessi da musulmani, diffuse ad arte per scatenare indignazione e rappresaglie. Lo stesso 7 marzo la polizia arrestava dieci membri di un gruppo estremista buddista, capitanati da Amith Weerasinghe, un attivista con più di 150 mila follower su Facebook, che poco prima dello scoppio delle violenze aveva condiviso un video in cui invitava i singalesi ad accorrere nella città di Digana, ormai “invasa” dai musulmani.

(Nel post si legge: Uccidete tutti i musulmani, non lasciate scappare neanche un figlio di questi cani. Alla fine i revisori di Facebook hanno cambiato idea e si sono decisi a rimuoverlo).

In un comunicato stampa, il social network si è limitato a ribadire che le proprie regole contro l’istigazione all’odio sono già sufficienti, garantendo però il proprio impegno a lavorare con le autorità srilankesi per rimuovere più in fretta i contenuti incriminati. Il blocco è stato sollevato soltanto dopo una settimana, in seguito a un incontro di due ore tra i rappresentanti dell’ufficio regionale di Facebook in India e il governo di Colombo, che avrebbe sollevato più di 100 richieste all’azienda. Non è chiaro, però, che cosa sia stato ottenuto nel concreto.

Secondo il ministro delle telecomunicazioni Harin Fernando, il problema principale è, banalmente, quello linguistico: Facebook avrebbe pochi moderatori capaci di leggere la lingua singalese, e quindi risponderebbe troppo tardi alle segnalazioni degli utenti.

Il social network, in risposta all’allarme per la diffusione di fake news da un paio d’anni a questa parte, ha promesso di arrivare a impiegare 20 mila moderatori di contenuti in tutto il mondo entro la fine del 2018, ma si tratta di una soluzione né efficace né sostenibile sul lungo periodo, da intendere più come una mossa d’immagine che come una seria iniziativa per affrontare il problema, nell’attesa che i progressi del machine learning permettano di lasciare il lavoro sporco all’intelligenza artificiale. E anche ammesso che si arrivi a questo punto, il problema ovviamente è cosa succede nel frattempo.

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In Sri Lanka, l’allarme per la diffusione dell’odio su Facebook era già stato sollevato con dovizia di particolari da un lungo rapporto stilato dal think tank liberale Center for Policy Alternatives nel 2014, all’indomani dei pogrom dell’estate di quell’anno. Ma il problema ha riguardato con forme simili anche altri paesi asiatici — che per i social network costituiscono uno dei mercati in maggiore espansione — e in particolare il Myanmar, dove gli ispettori delle Nazioni Uniti hanno definito “determinante” il ruolo di Facebook nell’alimentare l’odio contro i rohingya, vittime di genocidio negli ultimi due anni.

Pochi giorni fa è trapelato un memo del 2016 scritto da Andrew Bosworth, vice presidente di Facebook, in cui la missione del social network — “connettere le persone” — veniva anteposta anche all’eventualità della morte di qualcuno in un attacco terroristico coordinato “sui nostri strumenti.” (Lo scritto era stato fatto circolare internamente all’indomani di un omicidio trasmesso in diretta Facebook). Bosworth ha poi negato di essere mai stato d’accordo con le proprie stesse parole, ma il suo cinismo ha fatto capire chiaramente almeno due cose: l’azienda è perfettamente consapevole dei potenziali rischi sociali legati all’utilizzo dei propri servizi, ma non si fa alcuno scrupolo a metterli in secondo piano rispetto all’imperativo della crescita ad ogni costo. D’altra parte, le reazioni interne al leak sono state perlopiù rivolte contro gli impiegati che hanno “sabotato” l’azienda divulgando alla stampa informazioni interne.

È difficile dire in che misura il blocco informatico abbia influito sulla diminuzione delle violenze in Sri Lanka: l’opposizione al governo l’ha criticato in quanto inefficace e rivolto più a silenziare le voci di dissenso che a risolvere il problema — in un paese in cui per la libertà di stampa le cose già non vanno benissimo. Di certo non si può pensare che si tratti di una misura risolutiva, ed è prevedibile che simili episodi tornino a ripetersi se non si lavora a una soluzione efficace e di lungo termine, particolarmente urgente laddove l’orizzonte dei social network costituisce per molti utenti la totalità di internet. Inevitabilmente bisognerà partire dal presupposto che il problema riguarda la natura stessa dei social network, in quanto diffusori di informazioni su scala esponenziale e amplificatori di tendenze già in atto nella società. Ogni azione di contrasto al linguaggio d’odio non potrà quindi che muoversi su entrambi i fronti, favorendo la formazione di anticorpi contro il razzismo e, contemporaneamente, lavorando per ampliare l’alfabetizzazione informatica e la consapevolezza nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione.

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È importante che se ne discuta anche in Italia: episodi di violenza come quelli che hanno scosso lo Sri Lanka non sono poi così distanti. Nell’autunno 2014 abbiamo assistito agli assalti contro i centri d’accoglienza nelle periferie romane, anche in quel caso sapientemente coordinati da gruppi neofascisti e alimentati da una capillare propaganda mediatica contro “i crimini degli immigrati,” su cui sono fioriti anche business redditizi. Due mesi fa, la mano di Luca Traini a Macerata è stata armata dallo stesso linguaggio d’odio, mentre a Rosarno, dove vivono migliaia di braccianti stranieri impiegati nelle campagne, sono all’ordine del giorno violenze, intimidazioni e vere e proprie cacce all’uomo. La rapidità con cui post relativi a misfatti commessi da stranieri diventano virali — quasi sempre falsi, come quello del “rifugiato senza biglietto” sul Frecciarossa — deve farci domandare fino a che punto questo tipo di comunicazione abbia inquinato il dibattito pubblico, contribuendo alla deriva razzista degli ultimi anni. La domanda successiva è: quanto tempo ci vorrà a sradicare tutto questo.

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In copertina: il leader dell’organizzazione nazionalista buddista BBS, Galagoda Aththe Gnanasara. Grab via YouTube.

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