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Un reportage da Šušenskoe, la cittadina siberiana dove “il futuro capo mondiale del proletariato” visse tre anni in esilio, si sposò e scrisse le prime opere.

A fine Ottocento, a causa della sua attività di propaganda marxista tra gli operai, il giovane Lenin venne condannato a passare tre anni in esilio nel villaggio di Šušenskoe, nel distretto di Krasnojarsk in Siberia. L’epoca viveva una grande proliferazione di circoli progressisti, rivoluzionari, comunisti, a cui l’imperatore Nicola II rispondeva con arresti, deportazioni e emigrazioni forzate.

La Siberia era già da fine Settecento il luogo prescelto dagli zar per allontanare i dissidenti politici e i giovani rivoluzionari. Sempre a Šušenskoe, Nicola I aveva inviato prima i giovani protagonisti della rivolta decabrista del 1825 e poi, nel 1849, anche Petraševskij, la figura cardine di quel circolo segreto la cui partecipazione costò lo stesso trattamento anche al giovane Dostoevskij.

Oggi il paese di Šušenskoe, che conta poco più di 17000 abitanti, vive principalmente di un particolare tipo di turismo, quello legato alla figura del grande leader comunista.

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Aperta nel 1930, la casa-museo di Lenin si è ampliata negli anni, arrivando a divenire parte di un enorme complesso storico-etnografico a cielo aperto nel 1970. Fino al 1993 è stato un grande centro didattico-ideologico per la regione; nella Russia post-sovietica è divenuto patrimonio culturale della memoria storica, con tanto di sito internet (purtroppo solo in russo).

La prima impressione appena entrati nel complesso museale è quella di fare un salto nel passato. Casette costruite in solo legno, di pino o larice, a uno o due piani, neve ovunque, non una sola cosa moderna. Se da qualche uscio uscisse una contadina con i lapti ai piedi o per la strada passasse una trojka a cavalli, non ci si stupirebbe neanche più di tanto. Le visite al museo vengono permesse solo ed esclusivamente con l’accompagnamento di una guida.

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Il percorso di visita si apre subito con la casa che era stata destinata a Lenin non appena arrivato a Šušenskoe per scontare la pena. La targa in marmo sulla facciata recita: “In questa casa ha vissuto il capo mondiale del proletariato, Vladimir Il’ič Lenin, negli anni 1897 e 1898”. Lenin affittava, in questa casetta, una stanza e viveva con la padrona di casa, la Zyrjanovaja, vedova di un uomo d’affari del posto, che era stata costretta a mettere in affitto le sue case per mantenere se stessa e i figli, dopo la morte del marito e il conseguente fallimento dell’attività.

La casa consiste di 4 stanze principali, una piccola entrata dove sono riposti gli attrezzi per filare, una stanza con una stufa e delle scale portano ad un piccolo soppalco che funge da camera da letto: una stanza con tavolino e letto (o meglio una tavola, più affine a una scarpiera che a un giaciglio) e la camera-studio di Lenin. Non manca, qui come in quasi tutte le abitazioni del posto, il samovar (l’immancabile enorme “teiera” russa in metallo). La casa ha anche un cortile interno che ospita la banja (la sauna tradizionale), un magazzino e il capanno degli attrezzi.

La banja è un elemento così vitale per i russi che è presente pure nella prigione del museo a cielo aperto di Šušenskoe. Il carcere è circondato da una recinzione alta circa 5 metri fatta di tronchi conficcati nel terreno a circa 2 metri di profondità. La prigione è costituita da un cortile e una “caserma” formata da tre stanze: una ospita una “tavola” destinata ad essere il giaciglio dei detenuti, una è la mensa e la terza è la stanza del sorvegliante. Il “letto” è curiosamente corto e stretto: i detenuti dormivano semiseduti, per evitare che gli spiriti potessero fare confusione vedendo il corpo disteso, pensare che fosse morto e portarsi via l’anima (si alzavano certamente riposati alla mattina per andare a lavorare nei campi). La maggior parte dei reclusi era del posto: le donne del villaggio portavano direttamente a loro il cibo ogni giorno  e per questo non vi era una vera cucina.

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Ma torniamo alla casa di Lenin. Nella camera una targa descrive alcuni aspetti della vita dell’esiliato: Lenin, non potendo esercitare una professione a causa della pena, riceveva per sussidio dello stato 8 rubli al mese, cifra con la quale pagava il vitto e l’alloggio alla padrona di casa. Si era immerso nell’attività letteraria, per cui chiedeva ai suoi parenti di mandargli giornali, riviste e libri. In particolare si interessava della discussione sul futuro del capitalismo in Russia. Pubblicava articoli in cui esprimeva il suo punto di vista sotto lo pseudonimo di Vladimir Il’in. In una delle sue lettere alla sorella diceva di avere tutti i piani per la pubblicazione dei suoi articoli in un libro particolare. La raccolta Studi e articoli economici uscì infatti nel 1898.

Nadežda Krupskaja
Nadežda Krupskaja

Nel maggio dello stesso anno arrivò da lui la promessa sposa Nadežda Kostantinova Krupskaja con la madre Elizaveta Vasil’evna. Il Ministero degli Affari Interni le aveva concesso di scontare l’esilio nello stesso posto del fidanzato. I due si erano conosciuti nel 1894 proprio in un circolo marxista. Anche Krupskaja era una fervente comunista: nel 1905 divenne segretario della fazione bolscevica del Partito Operaio e dopo la rivoluzione del 1917 lavorò alacremente al fianco di Lunačarskij al Commissariato per l’Istruzione. Il 10 luglio 1898 vennero quindi celebrate le nozze tra lei e Lenin nella chiesa dei SS Pietro e Paolo di Šušenskoe. Chissà se anche Lenin e Krupskaja prima del matrimonio avessero osservato la credenza del “pianto”: ai tempi, prima del grande giorno, gli sposi erano tenuti per consuetudine a piangere per qualche giorno, in modo da esaurire tutti i giorni di tristezza prima delle nozze.

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Dopo il matrimonio, gli Ul’janov (cognome reale di Lenin) si trasferirono in un’altra casa, finalmente un po’ più spaziosa. A prima vista, anche oggi l’impressione è che sia più lussuosa, ma forse solo per le dimensioni. Nella sala principale sul tavolino sono esposte le foto della coppia con i documenti delle nozze. Nella camera nuziale, con i letti separati, c’è una scrivania e uno scaffale pieno di libri. È qui che nel 1898 Lenin completa la sua opera Lo sviluppo del capitalismo in Russia, che è posto sulla scrivania della camera. Appeso al muro c’è un fucile, con il quale andava a cacciare. In un passaggio, al muro sono appesi gli antenati degli odierni pattini, ovvero delle lame da applicare in qualche modo complicato sotto le suole. Dalla finestra si vede il fiumiciattolo dove la famiglia e la gente del posto amavano andare a pattinare.
Al centro del cortile interno erano stati fatti piantare degli enormi abeti, per nulla tipici della zona, a mo’ di abbellimento. La padrona di casa e i figli abitavano poche stanze, tutto il resto era in affitto. I figli della proprietaria amavano andare in visita dagli Ul’janov. Naturalmente, anche nella nuova sistemazione non mancava la banja.

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Il complesso museale ospita anche diversi altri edifici, come quello dell’amministrazione del villaggio. Nella stanza principale, dove si trova un lungo tavolo coperto da un telo verde, si svolgevano le riunioni dei capi del villaggio. Un esemplare di verdetto per un processato illustra la condanna a 20 colpi di frusta per essersi ubriacato (e probabilmente aver causato disordini). Appena entrati nell’edificio, sulla destra si nota una stanza separata, destinata alle riunioni degli anziani.

Altri curiosi luoghi di vita comunitaria sono il bar e un negozio di tessuti. Il bar, se così si può chiamare, consiste di una minuscola stanzetta con un bancone in mezzo. Non era un luogo in cui era d’uso sedere ore e ore a chiacchierare. Si arrivava, si prendeva da bere e si usciva. Un controllo speciale si occupava di assicurarsi che nessuno diluisse l’alcool con l’acqua.

Il negozio vendeva tanti tipi diversi di tessuti, nonché samovar di diversi tipi e misure, scarpe per donne e uomini. Si vendeva anche qualche bevanda e il tutto si misurava a peso. Una tabella indica il costo dei beni e le paghe medie dei lavoratori in base al tipo di occupazione. Tutte le ragazze che seguivano la moda desideravano acquistare – o comunque possedere – dei foulard finemente ricamati e decorati principalmente con motivi di fiori (i consueti foulard tradizionali russi per intenderci, nulla di nuovo sotto il sole). Una delle case visitabili è allora proprio il laboratorio della sarta del paese, in cui una donna, vestita in abiti tipici dell’epoca, spiega ai visitatori tutto il processo di lavorazione dei tessuti, dalla creazione della matassa a partire dalla pianta, facendo poi anche delle piccole dimostrazioni al telaio. Tra i diversi motivi che venivano ricamati, la croce spesso era destinata ai vestiti per i bambini, in modo che fossero “protetti”. Oltre ai simboli religiosi, figure gettonate erano gli animali. Nella sartoria venivano realizzati non solo vestiti, ma anche tovaglie, tovaglioli, lenzuola, insomma, qualsiasi cosa tessile.

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Altra attività caratteristica della zona era la costruzione di botti e barili di ogni genere a partire dalle piante di abete e larice. Anche in questo caso, un uomo vestito secondo la moda di fine ‘800 mostra come venivano realizzati questi recipienti indispensabili per la conservazione di generi alimentari.

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Questo villaggio-museo costringe a fare un passo all’indietro nel tempo: tutto, i colori, i materiali, perfino gli odori sembrano provenire da un’altra epoca. La neve poi gioca un ruolo fondamentale, aggiungendo un pizzico di esoticità e immergendo il villaggio in un’atmosfera da fiaba russa. Purtroppo però molte case in inverno non sono visitabili, proprio per la rigidità del clima siberiano.

A fianco del museo vero e proprio, al di là di un cancelletto verde, è stato costruito nel 2011 un luogo di villeggiatura, una specie di continuazione della conformazione del villaggio ai tempi dell’esilio di Lenin, in cui i villeggianti possono rivivere, provando sulla propria pelle, la vita del tempo. Le case sono la fedele riproduzione di quelle originali, e nella bella stagione vengono forniti tutti i servizi necessari. Naturalmente in linea con l’epoca: cavalli, carrozze, mense, luoghi di ritrovo serale.

Ha collaborato Martina Napolitano.

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