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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.

Marta Viola ha raccolto nel suo libro Sangue bianco i pensieri e le immagini che l’hanno accompagnata durante la sua battaglia contro la leucemia, che ha vinto.

Il libro di Marta Viola è edito da seipersei.

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Ciao Marta, volevo partire con una domanda forse un po’ retorica, ma alla quale penso sempre quando vedo questo tipo di lavori. La riflessione parte dal fatto che sarebbe sempre meglio non dover vedere questo tipo di lavori. Cosa mi dici del tuo vissuto: avresti preferito non fare questo libro?

È una domanda complessa. È difficile stabilire se avrei voluto o meno fare questo libro; quello che ho prodotto è chiaramente collegato al mio vissuto personale, ed è per questo che non saprei rispondere — naturalmente una parte di me avrebbe preferito non stare così male.

Ho iniziato a fare fotografie e scrivere dal primo momento, dal primo ciclo di chemioterapia, quando non sapevo ancora se sarei sopravvisuta o meno.

Il libro, comunque, è stata un’idea che è venuta subito, mi ricordo che mi sarebbe piaciuto farlo, sebbene non avessi ancora idea della forma, della quantità di foto e di testi. Insomma, nonostante sia costato molta fatica, sono contenta di aver fatto questo libro, perché sì, mi è costato fatica, ma è stato più faticoso sopravvivere. 

La fotografia c’era già prima della malattia?

Sì, certo, ma le cose che facevo prima avevano a che fare più con l’ambiente che con me stessa. Non sono così efficace nel relazionarmi con una persona se la devo fotografare, non fa parte del mio istinto creativo.

All’inizio della malattia però, avevo un cellulare, l’unico strumento per realizzare fotografie, e come soggetti l’ambiente ospedaliero e il mio corpo. Ho iniziato a scattare catturando dettagli, particolari della stanza, di quello che mi circondava, in maniera naturale: era la prosecuzione di quello che facevo già da tempo.

Ovunque andassi, se non avevo con me la macchina fotografica avevo il telefono per catturare degli spunti visivi.

Non si tratta di progetti fotografici ma di appunti visivi, una maniera per tenermi in costante contantto con la fotografia. È come quando leggendo un libro sottolinei le frasi che più ti colpiscono.

Fotografare è stato per me il modo per dire “ok, va tutto bene”, continua a fare quello che facevi prima. “Fotografare non deve essere un ostacolo: se lo facevi prima, lo puoi fare anche adesso!” è quello che mi dicevo — non potevo fare tante altre cose.

Nonostante questo progetto, le ricerche e i progetti in campo paesaggistico sono ancora quelli in cui più mi rispecchio; ho realizzato, ad esempio, un lavoro fotografico in collaborazione con l’osservatorio Lo stato delle cose.

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Qual è la tua formazione in questo ambito? 

All’università ho studiato psicologia, solo più tardi ho iniziato ad avvicinarmi alla fotografia. A Padova sono stata assistente di un fotografo che faceva principalmente moda e still life. Ho collaborato per un paio di anni con una associazione culturale che organizza un festival di fotografia in città: con loro mi sono occupata dell’organizzazione, delle mostre, dei corsi, gli davo una mano un po’ su tutto.

Come tanti è arrivato un momento in cui ho realizzato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di più, sebbene avessi già una certa consapevolezza del linguaggio. Mi sono iscritta ad un corso di fotografia avanzata allo IED che mi è servito, più che per avere una formazione tecnica specifica, per essere in grado di pensare, elaborare e realizzare un progetto nel suo complesso.

Nel corso di questi studi ho lavorato molto in gruppo, avendo così l’opportunità di rendermi conto di come gli altri utilizzano la fotografia. Il mio è solo un modo, una delle possibili sespressioni in fotografia.

I docenti, anche loro ovviamente, hanno avuto un ruolo chiave. In particolare uno di loro, che in seguito è diventato l’editore del libro.

Con Stefano Vigni sono rimasta in contatto dai tempi dell’università fino a quando, nel momento in cui ho avuto tra le mani la prima versione del libro, è stato proprio lui a riceverne una delle prime copie per chiedere un giudizio. Quello che è successo dopo è quello che si può vedere nella forma finale del libro. 

Il tuo racconto mi fa pensare ai diversi utilizzi della fotografia in campo terapeutico.  Tu l’hai fatto con questo intento e, se sì, ha funzionato?

Non sei il primo che fa questa associazione. Sono laureata in psicologia, per questo motivo posso dire che sicuramente c’è una connessione tra il lavorare su di sé e la fotografia. Devo però anche dire che personalmente non ho usato la fotografia con questo scopo o in questo senso.

Faccio un esempio. Ricordo che durante le ultime due settimane di isolamento post trapianto, quando stavo per uscire, sentivo di non essere in grande forma, di fare fatica a muovermi. È per questo che la sera programmavo la mattina: sapevo cosa avrei dovuto fare perchè ero consapevole che mi avrebbe fatto bene. E così tutte le mattine mi svegliavo presto per fare yoga e pilates prima, colazione e doccia poi. Era un rito, una sequenza che mi ero imposta perché sapevo che mi avrebbe aiutata: ne ero consapevole, sentivo di essere debole come sapevo che per risollevarmi dovevo fare attività fisica.

Questa è una attività di tipo terapeutico, per cui potrei dire che facevo cose per me stessa. Con la fotografia non è andata così, non mi sono dedicata alla fotografia per un determinato scopo: l’ho semplicemente fatto.

Che poi ci sia stata anche una parte di presa di coscienza della mia persona nel corso della malattia è innegabile, ma si è trattato di una una necessità più profonda, più intima.

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Prima hai usato l’espressione lavorare su di sé, ma il tuo libro l’ho visto più come un diario, sia nella forma grafica, attraverso la fotografia, che nella forma scritta. Il risultato è un diario molto personale. Un lavoro freddo per certi versi.

Sì, hai colto bene. La freddezza che si ritrova nel testo, così come nelle fotografie, fa un po’ parte di come sono io.  Ricordo che il giorno in cui mi è stato detto che avevo la leucemia la mia prima risposta è stata: “ok, cosa devo fare? Ditemi cosa devo fare che lo faccio.” In generale è così che affronto le cose, a sangue freddo.

Dentro mi si muoveva il mondo, non sono una persona insensibile, ma questo approccio da caos calmo mi contraddistingue.

Mi fa piacere che si percepisca perché non volevo drammatizzare, amplificare o sminuire: non volevo fare altro se non raccontare quello che ho vissuto come l’ho vissuto.

Questa è la mia di storia, ognuno la vive a modo suo, ognuno ha il suo dramma, ogni paziente è diverso.

Cosa significa per te oggi avere questo libro tra le mani, poterlo sfogliare e rivederti?  

È curioso avere il libro tra le mani. Rileggere mi porta nuovamente a quei momenti, a quel periodo. È doloroso, ma allo stesso tempo è bello perché quei racconti li posso leggere, a prescindere dalla forma che hanno preso.

C’è stato un periodo in cui ho anche avuto paura, avevo preso in considerazione la possibilità di non farcela; di fatto non era una certezza. Il libro in quel periodo era la cosa che mi faceva pensare che se mai io non ce l’avessi fatta sarebbe rimasta una parte di me.

Alla fine ce l’abbiamo fatta tutti e due: il libro stampato e io in carne e ossa.

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Marta Viola nasce a San Benedetto del Tronto (AP) nel 1986. Partecipa al workshop con Guido Guidi nel 2016 e a seguire con Letizia Battaglia. Segue il corso avanzato in fotografia presso l’Istituto Europeo di Design nel 2015 (Milano) e fa parte della giuria scientifica della quarta edizione dell’evento “Who Art You” a La Fabbrica del Vapore (Milano). Nel 2014 segue un corso diretto da Jen Davis presso l’International Center of Photography (New York) e fa parte dello staff del Padova Fotografia Festival. Espone in Italia e all’estero dal 2013. I suoi progetti sono focalizzati sull’interazione uomo-ambiente, realizza fotografie e video per cooperative sociali e associazioni. Collabora con le riviste D’Abruzzo-Edizioni Menabò e Mezzocielo con articoli e immagini. Co-fondatrice di un’agenzia creativa, lavora anche nel mondo della comunicazione. Psicologa, sta prendendo una seconda laurea in lettere. Nel 2018 pubblica il suo libro Sangue bianco Ed. Seipersei che racconta la sua esperienza con la leucemia attraverso immagini e testo.