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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram e sulla pagina Facebook di Diaframma.

Počitelj si trova nelle vicinanze della più nota città di Mostar, famosa soprattutto per il suo ponte e la storia ad esso collegata. Con questa città condivide una cosa molto importante: sono entrambe parte della lista dei patrimoni dell’Umanità dell’Unesco.

Dall’Italia percepiamo i patrimoni dell’umanità come qualcosa di artisticamente bello,  ma quando sono riferiti a eventi recenti è evidente che acquistano una dimensione umana. Ce lo dimostra la città di Počitelj vista attraverso l’obiettivo di Sulejman Bijedic. Qui emerge il senso di appartenenza a un luogo — gli anziani che ancora lavorano nei campi, la terra, qualcosa di fermo e stabile. I giovani, come racconta l’autore, tornano a Počitelj per non perdere il contatto con le proprie origini, la propria lingua madre e la parte di famiglia che hanno in Bosnia.

Provvisti di guide e supporti tecnologici di ogni tipo ricostruiamo un passato che non abbiamo potuto vivere. Sulejman Bijedic ci trasporta in un luogo in cui la memoria è ancora viva, e ce la restituisce soprattutto grazie agli anziani, con le parole e i racconti nascosti nei loro sguardi.

La città di  Počitelj è dove sei nato, hai ancora legami diretti con questo posto o sei tornato di proposito per il progetto?

Nessuno della mia famiglia oggi vive in maniera stabile nel villaggio. Dei miei parenti rimasti a vivere in Bosnia, qualcuno ritorna di tanto in tanto il fine settimana o durante qualche festività particolare. Sono quindi tornato di proposito per iniziare questa ricerca personale che è culminata nel progetto. In un certo senso ormai tutte le poche persone del villaggio si considerano “di famiglia.” Quando sono tornato tutti sapevano chi fossi e sono sempre stato trattato appunto come uno di famiglia.

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Come è stato raccontare la storia di un paese cosi piccolo?

Ho sempre trovato interessante  le storie delle persone del posto, il fatto che la città sia piccola quindi non è rilevante per il mio lavoro. Ancora oggi, ogni nuova visita è per me una nuova esperienza fatta di storie e aneddoti diversi. Per quanto riguarda invece l’aspetto tecnico, lavorare in uno spazio piccolo e definito può sicuramente essere d’aiuto, ma anche complicato perché si rischia di incappare in ripetizioni.

Mi parleresti di Zulfo, il più anziano del villaggio? In un luogo così remoto, con poche persone residenti e pochi contatti verso l’esterno, immagino sia una figura importante.

Zulfo è una persona unica. A quasi 90 anni è ancora un grande lavoratore che si alza all’alba per riuscire a portare a termine le numerose attività richieste dallo stile di vita rurale. Ama la compagnia, raccontare ed ascoltare storie, e i cruciverba. Ha la curiosità di un bambino e si interessa di tutto. Ricorda a memoria l’albero genealogico di tutte le famiglie che da secoli abitano la sua terra. Con me è stato di una gentilezza spiazzante sin dal primo giorno che sono andato ad incontrarlo. Oggi siamo grandi amici.

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Zulfo non è l’unico che ha ricordi della guerra degli anni ’90. Il progetto è il risultato delle testimonianze delle persone del posto che hai raccolto vero?

Esatto. Ho trascorso molto tempo con alcune di queste persone cercando di farmi raccontare la loro vita prima, durante e dopo gli eventi degli anni ’90. La maggior parte di loro sono state molto disponibili. Altre invece non tornano volentieri con la mente agli anni della guerra anche se essa è quotidianamente presente nelle loro vite. Si cerca di dimenticare perché è un peso molto pesante da portare.

Le tue fotografie sono molto delicate: la moschea ripresa all’alba, la solitudine di una passeggiata mattutina. Così anche il lavoro nei campi o l’ombra di un albero che va a finire su cespugli solitari. Mi parleresti del tuo stile?

Non credo di avere uno stile. Credo che cambi di volta in volta con il soggetto o la storia con cui mi confronto. Per questa storia in particolare, il mio approccio è stato onesto e semplice, innanzitutto con le persone. Credo che poi questa cosa si sia espressa naturalmente nelle immagini senza che io l’abbia deciso a priori. In generale posso dire che non mi piacciono le immagini sensazionalistiche e i fotografi che sanno in partenza ciò che andranno a fotografare.

Sei andato via dalla città quando avevi cinque anni. Hai qualche ricordo, anche vago, di come era prima della Guerra e prima che diventasse patrimonio Unesco?

Sì, ho molti ricordi antecedenti la guerra, belli e meno belli. Ricordo che in generale si passava molto tempo riuniti in famiglia. La mia era particolarmente numerosa e non ci si annoiava mai. Si passava molto tempo al fiume Neretva, con l’acqua fredda ma talmente pulita da poterla bere. Ricordo anche l’inizio delle ostilità, gli spari e poco prima di andare via i carri armati dell’ONU per le strade.

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Il titolo del tuo progetto – tradotto in italiano “da qui solo al cimitero”–  è molto duro nonostante la sua forma elegante. E’ una sorta di epitaffio di un divenire già scritto?

Per me riguarda più un sentimento: quello dell’attaccamento incondizionato verso questa terra. I più anziani hanno da sempre cercato di trasmettere ai più giovani un senso di rispetto e cura per la loro terra natale. Hanno lavorato duramente per dare un futuro migliore ai propri figli, per dar loro un titolo di studio in modo tale da rendergli possibile una vita in città ricordando sempre le loro origini. Il titolo è questo.

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foto-profilo

Sulejman Bijedić è un fotografo nato in Bosnia ed Erzegovina.

Il suo interesse si focalizza principalmente verso il modo in cui emergono e si definiscono le abitudini e la cultura di un popolo all’interno di contesti derivanti da scelte politiche, sociali e economiche sfavorevoli. L’intento è quello di documentare, con un approccio profondo che parte dalla singola persona – ognuna con i propri modi di vivere e le proprie motivazioni – la ricerca di quei valori che rendono l’esistenza degna di essere vissuta sotto qualsiasi circostanza.  Nel 2015, dopo aver conseguito la laurea in Ingegneria, si reca in Brasile per conto di una ONG italiana al fine di documentare il lavoro umanitario svolto da tale associazione in una piccola città del Bahia. Dal 2016 è invece impegnato nella realizzazione di un progetto fotografico personale a lungo termine in Bosnia ed Erzegovina. Il lavoro racconta del ripopolamento di un piccolo villaggio rurale dell’Erzegovina da parte di alcuni dei suoi abitanti di ritorno, costretti all’esodo durante la guerra degli anni ’90.