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in copertina le fondatrici del progetto Buy Nothing, Liesl Clark e Rebecca Rockefeller

In Italia la promozione della cultura del riuso contro lo spreco e gli acquisti compulsivi vede in prima linea Greenpeace che, nel periodo dal 2 al 10 dicembre, ha lanciato anche in Italia la “Make Something Week.”

Moda etica e sostenibile, creatività, riparazione, scambio e autoproduzione i principi alla base di un’iniziativa che ha visto numerosi cittadini creare accessori a partire da scarti di oggetti non più utilizzati. “Siamo stati indotti – ha commentato Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace — a pensare che la felicità provenga da ciò che compriamo, mentre sappiamo che la vera felicità viene da ciò che riusciamo a creare. Realizzare fantastiche creazioni da oggetti che già possediamo è molto più divertente e creativo rispetto allo shopping tradizionale.”  Tutti prodotti creati durante i vari eventi sparsi in Italia, anche a Milano e Roma, e in tutto il mondo è nato senza comprare materie prime né è stato in qualche modo venduto. La parola d’ordine e l’hashtag di riferimento era: #buynothing.

Ma che cos’è il Buy Nothing Project? I concetti chiave sono quelli della condivisione, dell’offerta, al massimo del prestito.

Il titolo è eloquente: non c’è niente da comprare. Così un pacco di pasta, un giocattolo per il proprio figlio, un capo di abbigliamento possono arrivare da un vicino di casa invece che da un negozio. Allo stesso modo, se ci si volesse liberare di un oggetto non più utilizzato, si può decidere di regalarlo o prestarlo a chi ne fa richiesta.

Per partecipare, bastano spirito di solidarietà e condivisione: bisogna iscriversi a uno dei gruppi Facebook riportante il nome del progetto, e caricare un post dove elencare, dicono gli organizzatori sul proprio sito ufficiale, “ciò che si vorrebbe regalare, prestare o condividere con i vicini.” “Si può anche direttamente richiedere ciò di cui si avesse bisogno, (da prestazioni mediche a oggetti di uso quotidiano, ndr), per poi riceverlo gratuitamente o in prestito.”

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Anche la fotografa, AV Goodsell, si è offerta di scattare le foto al matrimonio gratis

Un esempio da manuale di questa che è a tutti gli effetti una filosofia: a Beacon Hill, quartiere storico di Boston tramite il progetto Erika Dudra è riuscita a trovare l’abito da sposa che le mancava per celebrare al meglio il suo secondo matrimonio. La donna, una chiropratica, come ha raccontato il quotidiano Seattle Times, si era trasferita a Beacon Hill dopo la separazione dal marito da cui aveva avuto un figlio. Sola, con scarse disponibilità economiche e con un bambino di tre mesi da accudire, Dudra si è rivolta al locale gruppo “Buy Nothing,” attivo su Facebook. Ha cominciato a chiedere oggetti utili al bambino ricevendo immediatamente risposte e supporto dai vicini. Non solo quindi le sono arrivati pannolini, vestitini e biberon ma anche il calore umano di chi li offriva, con cui la donna ha stretto rapporti di amicizia ancora attivi. Lo scorso 21 settembre Erika Dudra si è risposata e la celebrazione — si legge ancora nel racconto del giornale statunitense — le è costata solo 300 dollari, cifra necessari all’affitto della location. Le restanti occorrenze, dalla torta alle decorazioni, passando per i fiori fino all’abito nuziale, sono arrivate dopo un post sul gruppo intitolato “Buy nothing wedding.”

La storia, certamente curiosa, è uno dei tanti esempi di come attorno alla pratica del “Buy Nothing Project” si siano create delle vere e proprie comunità. A fondare il progetto nel 2013 sono state Liesl Clark e Rebecca Rockefeller, precedentemente attiva in una associazione no-profit chiamata Freecycle, un progetto ambientalista simile, contro  organizzato sotto forma di mailing list, fondato nel 2003.

Certamente l’operato e i principi del network ambientalista hanno avuto un ruolo preminente nello spingere  Clark e Rockefeller alla fondazione del “Buy Nothing Project”, ma c’è anche un altro importante fattore da considerare. Clark è un’archeologa e nel 2007 stava girando un documentario per la National Geographic nella Upper Mustang, un’area a nord del Nepal, alle pendici dell’Himalaya, rimasta autonoma e demilitarizzata fino al 2008. In un villaggio della località, gli abitanti erano soliti praticare l’economia del dono rifiutando il sistema delle transazioni e qualsiasi tipo di moneta.

Un’economia quindi basata sul valore d’uso degli oggetti e non sul valore di scambio dove — a differenza della nostra economia di mercato — l’elemento fondamentale è la comunità, fondata sulle relazioni sociali e sul principio di reciprocità.

Dall’offerta di una dozzina di uova a una vicina di casa — come è accaduto alla fondatrice Clark in occasione del dono che nel luglio del 2013 ha inaugurato il progetto — può nascere una vera e propria amicizia. Sicuramente presto nasceranno comunità simili anche in Italia — oppure potete iniziare voi: sul sito ufficiale della piattaforma, la possibilità di aprirne uno è messa a disposizione.