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Il rapporto di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani in Libia è l’ennesima prova delle politiche criminali del governo italiano in materia di immigrazione.

In un rapporto pubblicato ieri, Amnesty International ha duramente accusato i governi europei di essere complici consapevoli delle torture e delle violenze a cui vengono sottoposti i migranti in Libia. Il report, lungo più di 60 pagine e intitolato “Libia: un oscuro intreccio di collusione,” descrive nel dettaglio come i governi europei “stiano attivamente sostenendo un sofisticato sistema di violenza e sfruttamento dei rifugiati e dei migranti da parte della Guardia costiera libica.”

Secondo il report di Amnesty, il paese, sconvolto da anni di conflitto, non è in grado di garantire condizioni di vita dignitose ai rifugiati. Secondo dati IOM (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) citati da Amnesty, in Libia a fine settembre 2017 erano presenti 416 mila migranti — ma il numero effettivo è probabilmente molto più grande. Il 60% proviene dall’Africa sub-sahariana, mentre il 32% dal Nord Africa. Di questi, è impossibile stimare il numero di quanti il sistema riconoscerebbe come “rifugiati,” o con necessità di protezione dal proprio paese, ma almeno 44 mila sono attivamente registrati presso l’UNHCR come rifugiati o in attesa di riconoscimento formale — persone a cui è stato a tutti gli effetti negato un diritto previsto dalle leggi internazionali.

Non per coincidenza, in Libia l’ingresso, la permanenza e anche l’uscita dal paese senza permesso sono reati punibili con la prigionia, multe ed anche con la deportazione diretta. La Libia è membro dell’Organizzazione per il controllo dei problemi dei rifugiati in Africa dal 1969, ma non ne rispetta il codice rifiutandosi di riconoscere il diritto d’asilo. Il paese non ha mai firmato la convenzione Onu del 1951 in materia di rifugiati.

Scrive Amnesty, dopo dozzine di interviste con migranti e rifugiati:

Le guardie dei centri di detenzione torturano con regolarità i prigionieri per estorcere denaro, liberando solo chi può pagare, e a volte passandoli direttamente a trafficanti che ne garantiscono l’uscita dalla Libia, in cooperazione con la guardia costiera. L’accordo tra la guardia costiera e i trafficanti permette a barche segnate con specifici segni di passare le acque libiche senza essere intercettati.

Uno dei migranti intervistati ha descritto i centri di detenzione “come l’inferno:” “Non si vede mai la luce del sole. Si resta chiusi in una stanza, chiusa a chiave, con un solo bagno. Le stanze sono strapiene, non c’è nemmeno spazio per dormire tutti coricati per terra.”

Alla luce di queste ennesime rivelazioni sulle condizioni dei centri di detenzione libici, risulta ancora più chiaro che la scelta di affidare a Tripoli il controllo della frontiera meridionale dell’Unione europea non è ingenua: è consapevolmente criminale.

Quando si parla di accordo con la Libia, ci si riferisce a un memorandum firmato dal governo italiano con il governo di riconciliazione nazionale di Tripoli guidato da Fayez al Serraj (l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale), nel febbraio di quest’anno. Il memorandum, ricalcando precedenti accordi del 2008 e del 2012, prevedeva, tra le altre cose:

  • Il supporto logistico e tecnico dell’Italia alla Guardia costiera libica
  • La chiusura del confine meridionale della Libia
  • L’“adeguamento e finanziamento” dei centri d’accoglienza nel paese

Essendo ben nota la situazione interna della Libia, l’accordo era stato sin da subito denunciato dalle organizzazioni umanitarie come estremamente pericoloso per l’incolumità e i diritti dei migranti. A marzo, perfino un tribunale di Tripoli aveva sospeso il memorandum, in seguito a un ricorso per profili di illegittimità costituzionale. Nonostante questo, l’accordo è stato messo in pratica forzosamente, contribuendo a determinare il netto calo degli arrivi di richiedenti asilo nel nostro paese. Ma non da solo: ad aprile è stato convertito in legge, tramite una mozione di fiducia, il decreto Minniti-Orlando, che ha stabilito un “diritto di serie B” per i richiedenti asilo, negando loro la possibilità di fare ricorso in appello in caso di respingimento della richiesta.

Contemporaneamente è iniziata la campagna diffamatoria contro le Ong che svolgevano operazioni di SAR (ricerca e soccorso) nel Mediterraneo: la campagna, tra le accuse non circostanziate del procuratore di Catania Zuccaro, il “codice di condotta” imposto dal Ministero dell’Interno, la fumosa inchiesta della procura di Trapani contro Jugend Rettet, le intimidazioni della nave dei neo-nazisti di Generazione identitaria, gli spari della guardia costiera libica e i servizi inaccurati di certa stampa italiana, ha centrato l’obiettivo: la maggior parte delle Ong ha sospeso le operazioni di soccorso, lasciando di fatto quasi completamente nelle mani di Tripoli il controllo del Meditteraneo meridionale. Al momento restano attive soltanto Sea Watch, Sos Mediterranée e Proactiva Open Arms.

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Questo combinato disposto (l’accordo con la Libia, il decreto Minniti-Orlando, la delegittimazione delle Ong — e tralasciamo la gestione dell’accoglienza di chi riesce a mettere piedi sul territorio) rappresenta il nucleo della svolta securitaria impressa dal governo Gentiloni alle politiche dell’Italia in materia di immigrazione, nel tentativo, probabilmente, di superare a destra Salvini e il Movimento 5 Stelle. Ma non è una svolta indolore, e di fronte al moltiplicarsi delle testimonianze dei sistematici abusi perpetrati quotidianamente in Libia, è difficile (e colpevole) stare zitti.

Il rapporto di Amnesty International si aggiunge a una lunga serie di inchieste che negli scorsi mesi hanno fatto luce sulle condizioni dei centri d’accoglienza nel paese, e sulle cause reali del calo delle partenze — quello che Minniti ha definito “la luce in fondo al tunnel.

A fine agosto, due inchieste di Reuters e Associated Press accusavano l’Italia di aver finanziato direttamente alcuni gruppi di miliziani locali di Sabratha per bloccare i migranti. A ottobre, un’inchiesta della CNN ha rivelato che nei “centri d’accoglienza” libici (gli stessi che, testo del memorandum alla mano, l’Italia si impegnava a “adeguare e finanziare”) si svolgono vere e proprie aste di schiavi. A metà novembre, l’Alto commissario Onu per i diritti umani è tornato a definire “disumano” l’accordo.

Soprattutto grazie alla vasta risonanza internazionale dell’inchiesta della CNN, l’attenzione è faticosamente tornata sulle responsabilità dell’Italia e dell’Unione europea — ma le risposte politiche sono state appena percettibili. Soltanto pochi giorni fa, il ministro Minniti, in visita a Tripoli, elogiava la guardia costiera libica e “i risultati ottenuti nelle missioni di soccorso” (tipo questi?).

Gentiloni invece ha rovesciato l’argomento, dichiarando ieri di fronte al Senato che è proprio merito dell’Italia se si sono “accesi i riflettori” sulla situazione dei diritti umani in Libia. Insomma: teniamo i migranti bloccati in Libia, li facciamo torturare, e poi diciamo che è merito nostro se il mondo viene a sapere che i migranti vengono torturati. Non fa una piega.


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