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Angela Merkel certo non poteva aspettarsi che a far saltare il tavolo della coalizione sarebbero stati i Liberali.

Le trattative per la formazione della cosiddetta “Jamaika Koalition” non nascevano sotto i migliori auspici, ma l’appoggio dell’FPD sembrava una garanzia. Era la partecipazione dei Verdi a essere in dubbio, per contrasti valoriali ed elettorali. Colpo di scena: i primi ad abbandonare la nave, “senza addurre motivazioni plausibili”, sono stati Lindner e i suoi.

“Meglio non governare che governare male.” Con queste parole il leader dei liberalen ha liquidato Angela Merkel nella nottata dili ieri. E Lindner assicura che non sia stata una scelta facile, che l’FDP abbia soppesato con cura la decisione, ma che non fosse niente di costruito ad arte. Eppure come immagine di copertina della pagina facebook del partito ora campeggia, in sobrissimo rosa fucsia su sfondo giallo, proprio la sentenza del capo, il nuovo mantra: “meglio non governare che governare male.”

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Il pretesto dell’abbandono sarebbero le generiche incompatibilità degli attori in campo e la confusione di Angela Merkel. Ma ad aver maggiormente gravato sulla formazione della coalizione devono essere state materie ben precise, una su tutte la questione migratoria, su cui i Verdi e i fedeli di Angela Merkel hanno trovato campo comune. Christian Lindner non può però scendere a compromessi a tal riguardo: nei mesi scorsi ha recuperato appositamente slogan di trumpiana memoria per avvicinare quell’elettorato spaventato dall'”invasione” che però ancora non s’azzarda, per pudore, a votare Alternative für Deutschland.

“La Jamaica è un’isola. Se su un’isola si va sempre dritto, si gira in cerchio,” aveva affermato profeticamente il braccio destro di Lindner Wolfgang Kubicki solo una decina di giorni fa. Effettivamente, per quasi due mesi i cristianodemocratici hanno girato in tondo, costretti a un walzer senza fine per metter d’accordo ballerini troppo pretenziosi e che per di più si odiano. Ora che il circolo è spezzato, però, tutto il meccanismo sembra essersi inceppato.

L’inverno a Berlino è arrivato presto.

A otto settimane dal voto, la Cancelleria è ancora vacante. Il baluardo della stabilità europea, il gigante traghettatore dell’Unione, ha ancora piedi e mani, ma non ha più una testa.

Non ci sono precedenti nella storia tedesca post-bellica di una simile paralisi. Come se l’incubo dell’instabilità non bastasse, si focalizzano sulla Germania gli sguardi di tutto il mondo: i membri della Ue attendono con trepidazione la nascita del governo che deciderà gli equilibri europei nei prossimi anni, gli Stati Uniti e la Russia aspettano al varco il nuovo cancelliere e gli investitori, tedeschi ed esteri, cercano di riprendersi dallo shock della nottata. Se trema la Germania, trema l’economia mondiale.

La Russia è la prima a mettere sotto pressione la Bundesrepublik, facendo sentire la federazione, per la prima volta dagli Anni Novanta, un “osservato speciale.” Putin e il suo portavoce Dmitri Peskow augurano alla Germania di trovare rapida soluzione al fallimento delle trattative, vista l’importanza che la Germania riveste per la Russia come partner economico. Un augurio che suona come un monito. Molto meno delicato il presidente della Commissione Affari Internazionali Leonid Slutsky, che, per il quale le vicende di ieri notte sarebbero chiaro sintomo di un “trend malato in tutta Europa”.

Il lunedì del ritorno sulla terra ferma è frenetico: prima del colloquio col Bundespräsident Steinmeier, Angela Merkel passa la mattinata al telefono, lo stesso fanno i cristianosociali bavaresi, mentre i Verdi e l’SPD convocano riunioni d’urgenza dei rispettivi Präsidien per far fronte alla mossa del tutto inattesa dei liberali.

In poche settimane si potrebbe tornare alle urne e nessuno, dopo mesi di campagna elettorale, è pronto per un secondo round. La CDU/CSU sembra essere già esausta, mentre l’SPD si è adagiato nel suo ruolo di prima forza d’opposizione. I socialdemocratici non pensavano di essere chiamati in causa così presto dopo il fermo “Nein” a una nuova Große Koalition.

Gli scenari possibili da qui ai prossimi mesi sono tutt’altro che rassicuranti, dal momento che Martin Schulz ha già ribadito la chiusura a una qualsiasi alleanza ampia con la Merkel.

La prima, debolissima soluzione all’impasse potrebbe essere un governo di minoranza di CDU/CSU coi Verdi oppure coi Liberali. Alla coalizione giallo – nera mancherebbero 29 parlamentari per avere la maggioranza, alla verde – nera, 42. Ma nessuno dei due possibili partner pare essere interessato a un ménage così fragile, in cui per altro figurerebbero da gregari. Né il duo Göring-Eckardt Özdemir, né Lindner hanno intenzione di prendersi una simile responsabilità: la vita del governo dipenderebbe direttamente dalla loro lealtà, e tuttavia non avrebbero la forza d’essere incisivi sul suo operato; qualsiasi errore dell’esecutivo ricadrebbe negativamente su di loro, qualsiasi successo andrebbe alla CDU. Troppo da perdere, troppo poco da guadagnare.

La stessa valutazione, col beneficio dell’esperienza pregressa, hanno fatto le donne e gli uomini dell’SPD. Tecnicamente la Große Koalition sarebbe una via ancora praticabile, nonché la soluzione più stabile. Più stabile, ma meno verosimile. L’SPD è, come tutti i partiti socialisti europei, alla ricerca di sé stesso; tutti sanno quanto sia necessario, anzi, vitale per il partito concedersi qualche anno di pausa per rifondare il proprio programma e il proprio consenso. La base si è espressa negativamente nei confronti della GroKo e i leader del partito non intendono discostarsi dalla linea.

D’altra parte, i numeri non consentono nemmeno vagheggiamenti su possibili governi “rosso – rossi”, “rosso – verdi”, o addirittura “rosso – rosso – verdi”. Nonostante le speranze della Die Linke, tutti insieme — SPD, Verdi e Die Linke — raggiungerebbero a fatica il 40% dei seggi, in un Bundestag dominato dalle destre di ogni possibile sfumatura.

È l’AfD l’innominabile forza che spariglia il gioco e le carte: con quel 13% rappresenta una fetta consistente del Parlamento, ma nessuno vuol scendere a patti con un partito xenofobo, razzista ed euroscettico (almeno in Germania, almeno per ora).

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Il terzo scenario prevede nuove elezioni e ha tutta l’aria d’essere una falsa soluzione. Il rischio più che concreto è quello di ritrovarsi di nuovo in stallo, rimandando solo di qualche mese la vexata quaestio. La via verso le urne è per altro assai ardua. La Costituzione tedesca prevede un iter piuttosto complicato per lo scioglimento del Parlamento, non basta lo schiocco delle dita del Presidente: a prescindere dagli accordi fra le forze politiche, si dovranno avviare comunque tutte le pratiche per l’elezione del Cancelliere. Tre fasi di voto parlamentare separano la Germania dalla chiamata ai seggi. Sul nome proposto dal Presidente della Repubblica come Kanzler deve convergere la maggioranza dei parlamentari. Nel caso non vi fosse la fiducia, passa al Parlamento l’onere e l’onore di proporre candidati e cercare di ottenere la maggioranza assoluta, il tutto entro 15 giorni. Qualora non si riuscisse ancora ad eleggere il Cancelliere, scatta una terza fase di voto in cui, tra tutti i candidati cancellieri, viene eletto quello che riceve la maggioranza relativa. Solo a quel punto il Bundespräsident può scegliere se affidare al neoeletto un governo di minoranza o se sciogliere il Bundestag. Se ciò dovesse avvenire, le elezioni dovrebbero tenersi entro 60 giorni.

Il Presidente della Repubblica, che ha richiamato alle proprie responsabilità tutte le forze politiche, incontrerà in questi giorni i leader di ogni partito per gestire il processo di formazione del governo – che rimane l’obiettivo primario: “Un punto rimane per me fermo – ha dichiarato nel primo pomeriggio — all’interno, ma anche all’esterno del nostro Paese, e in particolare presso i nostri vicini europei, nascerebbero incomprensioni e preoccupazioni, se proprio nel Paese più grande ed economicamente forte d’Europa le forze politiche non adempiessero alle loro responsabilità.”