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Sembra ormai confermato il risultato del voto di Sicilia, che vede un exploit assolutamente preannunciato del centrodestra e la conferma del Movimento 5 Stelle come primo partito d’Italia. 

Al di là delle dinamiche regionali interne alla Sicilia — dinamiche tossiche che Beppe Grillo ha saputo cavalcare con maestria, come fa con ogni altra dinamica tossica d’Italia.

Confrontando gli exit poll e i primi dati dello spoglio con i risultati del 2012, la situazione per il centrosinistra non potrebbe sembrare peggiore: il Pd arriva terzo, la sinistra cresce marginalmente — sono cambiati tutti i partiti dell’area, ma non è chiaro quanto siano cambiati gli elettori.

Inizia a disegnarsi uno scenario per cui il Pd, da sempre fautore della retorica del “voto utile” per tenere a bada le tentazioni del proprio elettorato, potrebbe vedersi vittima di questi ragionamenti, schiacciato dai due veri protagonisti della politica di quest’anno: Beppe Grillo e Silvio Berlusconi.

Il Pd oggi, indeciso se dare la colpa a Grasso, ad Articolo 1 e agli “scissionisti,” o se giocarsela calma sostenendo che la sconfitta era annunciata, deve iniziare a fare i conti su come prepararsi alle elezioni politiche, dove, prevedibilmente, si ripeterà esattamente questo scenario, probabilmente con numeri molto simili a questi.

Cos’è successo?

È successo che, a differenza del 2013, il centrodestra è riuscito — piú o meno miracolosamente — a rifarsi una verginità agli occhi degli elettori. Si tratta forse dell’evento piú inaspettato di questi anni, il ritorno in auge di Silvio Berlusconi, ottantenne impresentabile e incandidabile — un evento che però il Partito democratico si è fatto in casa, promuovendolo come interlocutore credibile per governare. La politica delle coalizioni non ha nulla di scandaloso — come invece sostiene una parte sempre piú corposa di politica italiana, animata da una maturità politica da collettivo studentesco liceale — ma ha una conseguenza inevitabile: spegne i tentativi di polarizzazione, costringendo ogni partito a presentare posizioni ideologiche che poi dovranno essere moderate in un governo di colore misto.

In Italia, invece, la campagna elettorale funziona tutta per polarizzazione — e solo così si può leggere il consolidamento del Movimento 5 Stelle, che cinque anni dopo le scorse elezioni è arrivato a queste elezioni siciliane, e arriverà alle prossime politiche con niente di piú di qualche boutade propagandistica facilona — ma ci è arrivato senza fare coalizioni, senza, agli occhi dei propri elettori, compromettersi, sopravvivendo miracolosamente anche alla pioggia di scandali romani. E quel partito, che è facile liquidare così, oggi è il primo partito della regione e sarà certamente anche il primo partito d’Italia — con un ampio margine.

È utile interrogarsi su di chi sia la colpa?

Quando Renzi era l’astro nascente della politica italiana, un suo frequente refrain era la sua presupposta capacità di attrarre elettori di altri partiti. “Con Renzi si vince,” è un’espressione che, ripetuta come un mantra, non poteva rivelarsi sul lungo periodo piú sbagliata. Al contrario, la presenza e la candidatura di Renzi è diventata sempre piú oggetto di contenzioso fuori dal partito. Ha ragione Orlando quando oggi dice a Repubblica che gli elettori del Pd hanno già scelto il loro candidato — ma è anche vero che in questo momento il Pd ha bisogno degli elettori che oggi non lo voterebbero. Altrimenti perde malissimo.

È comprensibile che fan e sostenitori di Renzi vedano il risultato di Fava e incriminino Mdp e gli elettori di “sinistra” del loro fallimento, ma i numeri non mentono: anche in una grande coalizione tutti i partiti di sinistra e centro prendono meno del Movimento 5 Stelle da solo. E il Movimento 5 Stelle da solo non prende abbastanza voti per battere la nuova coalizione di destra.

Ad un certo punto non si potrà piú discutere “di chi sia la colpa” e bisognerà trovare una soluzione al problema. Se Articolo 1 si rifiuta di fare una coalizione con Renzi premier, e al Pd servono gli elettori di Mdp, in qualche modo bisogna fare: soprattutto di fronte al rischio che, se il partito degli scissionisti, o Possibile, o Sinistra Italiana, accettasse il compromesso, i suoi elettori potrebbero pensarla diversamente.

Renzi, fuori dal Partito democratico, dove ha consolidato ampiamente il proprio potere, è un argomento per gli altri partiti. Può far rabbia a chi condivide la sua piattaforma politica, può apparire come una idiosincrasia della politica italiana — è sì stato vittima di un’operazione di demonizzazione, ma in questa demonizzazione per ragioni incomprensibili si è crogiolato.

Si può anche scegliere di perdere. Di sicuro c’è qualcuno a cui questa opzione interessa molto: ad esempio proprio a Matteo Renzi, che spera di poter fare da ago della bilancia di un governo di coalizione con la destra. Ma qualcuno nel Pd dovrebbe forse chiedersi se questa posizione — oltranzista del nulla, perché il partito è completamente privo di materia ideologica o programma elettorale — convenga piú al Partito o alla sopravvivenza di un suo leader.

Questa mattina Di Maio, forse unico leader in questo momento sulla scena politica capace di far apparire Matteo Renzi come un consumato statista, ha colto la palla al balzo per scansare il confronto in tv da Floris. I commentatori del Pd si sono schermiti attaccando Di Maio — e la scelta è davvero piuttosto patetica, ma l’accusa da parte del candidato premier dei 5 Stelle ha del vero: e forse per questo brucia particolarmente al Pd.

Il Pd perde colpi sotto il peso di una situazione da cui può uscire. Bersagliato per anni da una campagna di odio senza precedenti a cura del Movimento 5 Stelle, invece di rispondere adottando toni che parlino al crescente senso di disperazione di una parte importante della popolazione si è appiattito sui temi che il partito di Grillo non attaccava: quelli di centrodestra. Così, insieme, le due forze hanno ricostruito il partito di Berlusconi per lui, e solo oggi il Pd scopre che non c’è posto per tre.

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