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Mentre scriviamo quest’articolo, non sono ancora stati diffusi i risultati ufficiali dell’affluenza e delle percentuali del referendum per l’autonomia lombardo.

Un ritardo clamoroso, se si pensa che i risultati sarebbero dovuti arrivare ieri sera verso le undici e che il costosissimo sistema di voto elettronico era una delle novità più rilevanti della consultazione elettorale e, secondo quanto ha dichiarato Maroni ieri sera, il principale motivo per cui il Movimento 5 Stelle ha appoggiato la consultazione.

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È difficile analizzare il voto di ieri senza arrivare alla conclusione che Roberto Maroni sarà costretto a dimettersi. Questo ovviamente non succederà, perché viviamo nell’epoca della completa de-responsabilizzazione della politica, e non ci sarà nessuna conseguenza ad aver sprecato risorse e martellato una regione intera di propaganda per un referendum che chiaramente non era sentito come necessario dalla cittadinanza.

Il risultato — che commentiamo seppure appunto ancora nebuloso — indica una partecipazione da record–al–contrario, in particolare a Milano. Questo dato mina persino la diffusa critica che il referendum fosse riassumibile nelle volontà autonomiste di una regione ricca rispetto ad un paese mediamente più povero. Non è bastato nemmeno il sostegno quasi unanime delle principali figure politiche lombarde, compresi molti amministratori di centrosinistra che si sono schierati dalla parte del referendum, a convincere la gente ad andare alle urne — ops, ai tablet.

Il confronto in termini di affluenza tra Milano e il resto della Lombardia — e rispetto al Veneto — rivela un altro dato: che si sia trattato di un voto largamente mosso da un ampio analfabetismo politico, nutrito di propaganda spesso completamente scollegata dalla realtà, che ha potuto attecchire soprattutto per colpa della mancanza di qualsiasi tipo di opposizione ai messaggi sotto-testuali progressivamente sempre più deliranti della campagna per il Sì.

Almeno il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, avrà sperato da qualche parte nel suo cervello elettorale di poter salire sul tanko del vincitore in vista dell’esame prossime elezioni regionali, che si avvicinano sempre più.

Invece si ritroverà a salire sul carro della vergogna, almeno davanti alla maggior parte della popolazione lombarda.

Il costo esorbitante dei tablet — sostanzialmente l’unica critica mossa dal centro democratico lombardo e dallo stesso Gori — è un utile segnale se letto nel contesto dell’analfabetismo politico: visto che non è in nessun modo un dovere della popolazione essere informata riguardo alla politica e ai suoi codici,  il contenuto della politica sta sostanzialmente perdendo importanza di fronte ad un pubblico sempre più influenzabile dalla propaganda. È difficile pensare che questo referendum sarebbe stato possibile anche solo dieci anni fa. Ed è proprio il suo completo vuoto ideologico e tecnico che tenterà i suoi tanti sostenitori, storici e ultimi arrivati di svicolare dalla sconfitta in nuove piroette comunicative.

Gori e il suo partito infatti avrebbero potuto impersonare la fazione del buonsenso e spiegare ai cittadini perché questo referendum era, in sostanza, una presa in giro sotto un punto di vista sia economico che politico. Invece ha scelto di essere d’accordo con il referendum dichiarando di andare a votare sì però gli stavano sulle balle tutti i soldi spesi da Maroni quindi uffa il referendum l’avrebbe fatto diverso però insomma alla fine non per fare un favore a Maroni eh però votiamo sì.

Una posizione non chiara. E difficilmente sfruttabile alle prossime elezioni.

Cosa sapevano gli elettori che si sono recati alle urne per votare Sì? Erano coscienti delle conseguenze economiche e politiche del proprio voto? Il voto in Veneto e in pianura padana evidenzia un elettorato disagiato, che vota per la proposta che fa stare meglio, senza preoccupazione delle conseguenze. È facile legare le conseguenze politiche — in Veneto ci saranno, in Lombardia no — al risultato del voto, ma si tratta soprattutto di un risultato forzoso, costruito su anni di propaganda e comunicazione politica, anche dal basso, che prometteva molto di più del trattenere qualche euro in più dalle casse dello Stato.

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Ma se è facile giungere alle conclusioni che Maroni debba dimettersi, idealmente oggi, magari domani se il suo tablet ci mette un po’ a caricarsi, viceversa questa dovrebbe essere occasione generale per un utile esame di coscienza per non solo i politici leghisti, noti per non averne affatto, ma per la classe politica italiana. All’indomani di una campagna elettorale che si preannuncia nucleare, è impossibile non leggere questa campagna referendaria come una sorta di anteprima dei livelli di bassezza a cui assisteremo nei prossimi mesi.

Così, mentre non è lecito aspettarsi un vero programma elettorale e propaganda elettorale dalla Lega — o forse da tutto il centrodestra italiano — che non si è mai sforzato in questo senso, è impossibile non riguardare alle dichiarazioni di pancia delle scorse settimane di tanti sindaci e attivisti democratici e chiedersi, ragionevolmente, se loro saranno capaci di produrre un programma elettorale organico: finora, l’hanno sempre fatto. Oggi, è più difficile crederci, e getta ombre profonde sulla credibilità di tutto il Partito democratico alle politiche.

Con tatticismo fantozziano, il partito ha deciso di abbracciare una battaglia tradizionalmente nemmeno propria del centrodestra ma della destra vera — ritenendo di non potersi esimere dal coro autonomista.

Così, per quanto incredibile possa sembrare, anche a causa di questo atteggiamento fumoso del PD, il vincitore morale di questa manifestazione, o almeno la parte politica che ne trarrà i vantaggi più cospicui, è il centrodestra.

Il Pd, che avrebbe dovuto contrastare in tutti i modi questo voto ha piegato tutti i propri valori scommettendo che questa volta dovesse “dire qualcosa di destra.” Ed è riuscito a perdere anche questa volta, anche insieme alla peggior destra che poteva scegliersi.

 

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.