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Il presidente francese Macron ha iniziato a giocare d’attacco, ricordandoci come l’ordine internazionale risponda innanzitutto a interessi nazionali. È una novità? Assolutamente no. La novità è l’atteggiamento politico del neo-eletto “re di Francia,” che si configura a metà tra un eccessivo protagonismo e un doppiogiochismo beffardo.

Che fine ha fatto il salvatore dell’Unione Europea, applaudito quasi all’unisono da politica e media nostrani? Semplice: non è mai esistito, se non per effetto illusorio dell’infantilismo politico di chi l’ha sperato.

Emmanuel Macron era riuscito, poco più di un mese fa, a sedurre buona parte della classe politica italiana, un po’ per la scarsa capacità di analisi della stessa, un po’ per la raffinata ars dicendi del francese. Che stia, il giovanissimo leader, tentando di recuperare i dieci punti percentuali persi in consensi e popolarità o voglia intercettare l’attenzione dell’opinione pubblica per approvare leggi impopolari lontano dalle luci dei media, una cosa è evidente: il triplice smacco all’“amica” Italia.


L’avanzata sulla questione libica è stata la prima in ordine cronologico. Si tratta dell’invito, da parte di Macron, ad un incontro all’Eliseo tra i due maggiori rivali in Libia, il presidente Fayez Serraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, ed il generale dell’esercito Khalifa Haftar, controverso amico-nemico di Gheddafi. Con l’incontro Serraj-Haftar, avvenuto il 25 luglio, la Francia ha messo a segno un duplice colpo: quello diplomatico e quello economico, strettamente connessi. Sul piano diplomatico, Macron ha raccolto i frutti della lenta mediazione della Farnesina e ha approfittato della poca risolutezza decisionale italiana, prendendo le redini del dialogo libico senza avvertire l’Italia, che, per posizione geografica e ruolo nella gestione della crisi dei migranti, sarebbe ragionevolmente da considerarsi interlocutrice fondamentale. Dunque la Francia, in prima linea nella guerra al colonnello Gheddafi – guerra che ha fatto sprofondare la Libia nel disastro attuale e ha aggravato esponenzialmente la crisi dei migranti – ora è in prima linea per la pace. Benissimo, se solo non avesse prepotentemente messo da parte l’Italia e se non ci fossero di mezzo interessi economici, che evidenziano come l’operazione diplomatica di oggi è solo la naturale continuazione della guerra di ieri, poiché nasconde i medesimi affari. Il piano diplomatico si estende anche a un più generico protagonismo francese in Africa: Macron (esattamente come i suoi predecessori e contrariamente a quanto dichiarato in campagna elettorale) vuole rafforzare la leadership francese in Centro e Nord Africa, favorito dai retaggi ex-coloniali e dalle politiche di soft-power degli ultimi decenni. Ma la politica estera francese in Africa risponde, soprattutto, a logiche economiche: la Francia, infatti, ha interessi energetici in Libia, che possiede il 38% del petrolio africano, dove è già presente con la sua Total, e un ruolo predominante nelle trattative di pace vorrebbe dire una fetta di torta energetica più grande.

foto via Twitter
foto via Twitter

Il secondo terreno invaso riguarda la crisi dei migranti, sempre più centrale nel dibattito politico italiano ed europeo. Anche su questo tema, Macron si è rivelato un abile stratega e un interlocutore poco affidabile per l’Italia; dopo aver rilasciato dichiarazioni contrastanti prima e dopo il vertice di Tallinn (“l’Italia non può correre da sola”, ma “i porti francesi non si possono aprire alle ONG”), ha accelerato bruscamente, affermando la propria volontà di aprire hotspot in Libia, ancora una volta ignorando Roma, anzi sottolineando che il progetto sarà realizzato “con o senza l’Italia e l’Unione Europea”. Poi, di fronte agli interrogativi italiani, ha prontamente fatto marcia indietro: si sarà trattato di una necessità di postura, per scrollarsi di dosso sia le responsabilità dei francesi nella crisi umanitaria sia il tanto vantato europeismo? Di fatto, anche in questa occasione, l’unico dato chiaro è stato lo smacco al governo Gentiloni: le battute improvvisate da Macron sono uno sgambetto all’agenda italiana in tema migranti, stilata già con i troppi impedimenti frutto di una Unione sempre più disunita.

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L’ultimo, ma non meno importante sorpasso, è quello industriale, riguardante i cantieri di Saint Nazaire. L’esecutivo francese ha prima azzardato la proposta di una diversa spartizione delle quote del cantiere, 50 e 50 tra Italia e Francia ridimensionando il 66% inizialmente destinato a Fincantieri, poi ha minacciato la nazionalizzazione – tramite il diritto di prelazione – davanti al no italiano. La questione, secondo alcuni “puramente industriale,” si configura, invece, come il terzo nodo politico dell’accelerata francese volta a rafforzare la propria leadership interna e l’asse franco-tedesco in Europa. Ma torniamo ai fatti: Macron ha, forse, rinunciato anche al liberismo e si è convertito al socialismo? No, anche in questo caso si tratta di un doppio, o triplo, gioco. Macron non ha nazionalizzato il polo cantieristico per istinti bolscevichi reconditi, tutt’altro: l’ha fatto, anzitutto, per una trovata propagandistica che ponga rimedio al drastico calo della sua popolarità delle ultime settimane. In secondo luogo, la nazionalizzazione di Stx riguarda una più grande battaglia navale, che si è giocata soprattutto in Qatar: nel 2016, infatti, l’Italia ha soffiato alla Francia la costruzione dell’intera marina militare dell’Emirato, confermandosi leader mondiale nel campo. Il dinamico nuovo inquilino dell’Eliseo, dunque, ha ora approfittato della debolezza del governo Gentiloni esattamente come ha fatto Renzi con la debole presidenza di Hollande un anno fa. Macron, così, si conferma “liberista con i lavoratori e protezionista con il capitale”, come ha acutamente osservato il giornalista Alessio Postiglione. 

Cosa ci dice, quindi, il prepotente opportunismo della politica estera macronista? Molto su Macron, ma ancor di più sull’Italia e sull’Europa: nazionalizzare si può, checché ne dicano le storie recenti di Alitalia, Ilva, Telecom e via dicendo; ne segue che l’Unione Europea utilizza due pesi e due misure; l’esecutivo italiano ha perso qualsiasi residuale potere di contrattazione sul piano europeo e internazionale, complice la poca o nulla coesione interna; questa è la prova generale di una Ue a guida franco-tedesca.


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