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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram. Questa settimana Roberto Boccaccino ci parla del suo progetto Potenza 100, un lavoro dove si mescolano realtà e libertà di immaginazione di un territorio.


Ciao Roberto, come mai un lavoro sulla Basilicata?

Sono nato e cresciuto in quelle zone, per poi passare qualche anno all’estero. Da sei anni invece vivo a Palermo. Posso dire che oltre alla componente anagrafica ce n’é comunque una di fascinazione per queste terre, l’Appennino centro-meridionale: un’attrazione che deriva dal fatto che questi territori non hanno un immaginario socialmente condiviso.

In che senso?

Pensare a Stoccolma richiama determinate immagini alla mente che possono essere condivise da molte persone: Potenza non credo faccia lo stesso effetto, non hai idea di cosa immaginarti. Questo vale anche per città come Campobasso o Benevento. Delle città continentali del sud probabilmente si ha un’idea, soprattutto per le località meno note, come dei contenitori in cui non sai bene cosa ci sia dentro. Questa è una riflessione generica su queste città, ma il mio lavoro si concentra sulla Basilicata, non solo Potenza come potrebbe suggerire il titolo.

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Il titolo Potenza 100 da dove viene?

Nasce da una cosa un po’ buffa. Ho girato la Basilicata da solo, in macchina, dormendo in tenda, con itinerari definiti ma suscettibili a variazioni dell’ultimo momento. È proprio girando in macchina che spesso è capitato di trovare cartelli che mi indicavano 100km: la distanza tra me e Potenza.

Vista la natura del progetto, che ha a che fare in parte con il territorio e in parte con tematiche di ricerca scientifica, astronomica e di sfruttamento delle risorse, Potenza 100 era il giusto compromesso.

Tornando al progetto, hai dunque raccontato questo scenario indefinito.

La Basilicata soffre molto di quello che potremmo chiamare vuoto di immaginario, più di altre regioni. A tal proposito basti ricordare la battuta “la Basilicata non esiste:” non esiste perchè non abbiamo un’idea definita di cosa ci sia. Questa peculiarità, questa assenza di iconografia e di contenuti mi ha interessato molto: l’operazione che ho cercato di fare è stata quella di riempire questo vuoto con un immaginario fittizio. Ho cercato di raccontare un territorio reale, con degli strumenti standard, sovvertendone in qualche misura i canoni normali del racconto di tipo documentario. È un lavoro sull’impossibilità di documentare un luogo, infatti, io ho documentato qualcosa che fondamentalmente non esiste, ha più a che fare con l’immaginazione che non con la realtà. Sebbene tutte le fotografie sono state scattate a persone e luoghi che effettivamente si trovano in territorio lucano, la sequenza delle fotografie e la presentazione sotto forma di teaser mi ha permesso di rimescolare le carte e astrarre questi luoghi, raccontando infine una realtà bizzarra.

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Quali sono i luoghi che hai scelto per il tuo progetto, dovevano essere selezionati per creare questo scenario immaginario che ci racconti.

Ho cercato di raccontare la Basilicata come se fosse un luogo remoto, desertico. Ho combinato immagini che dessero l’idea di un’area inaccessibile, lontana: paesi isolatissimi di cui la Basilicata è piena. Questi primi scenari li ho poi messi in dialogo con luoghi più ricercati, quelli dedicati alla ricerca scientifica e lo sfruttamento delle risorse: ci sono l’ENI, il CNR, l’agenzia spaziale italiana con un centro di geodesia, osservatori astronomici, l’Enea e tanti altri luoghi che sono stati per me punti di raccolta di immagini per la particolarità del luogo, non ero interessato direttamente alle attività svolte da questi enti. A queste fotografie si alternano ritratti di persone nelle loro vesti quotidiane. È mettendole insieme che luoghi di ricerca scientifica e contesti normali danno un senso di spaesamento: lo spettatore non è in grado di capire subito dove si trova, non riconosce immediatamente il paesaggio tipicamente italiano. È un lavoro che richiede una forte dose di interpretazione, in questo senso non si tratta di un lavoro documentaristico di stampo classico, ed è per questo motivo che mi piace dire che è una grande presa in giro, scimmiotta i lavori documentari.

In generale nei tuoi lavori mi sembra presente questa caratteristica che descrivi.

Nel progetto Potenza 100 è sicuramente molto accentuata questa caratteristica. Quello che in generale mi interessa è proprio l’immaginario che circonda le tematiche che volta per volta affronto. Per intenderci potrei citare il lavoro su L’Aquila che ho fatto qualche anno fa, nel periodo post terremoto. Andai con l’intento di fare un lavoro di tipo strettamente documentaristico, da rivista insomma. Arrivato sul posto mi sono reso conto che la situazione era molto più complessa e per certi versi più bella di quella che si poteva racchiudere in un lavoro troppo didascalico degli eventi. In quel caso mi sono dedicato in particolar modo agli scenari che non conoscevo: mi piace poter scattare fotografie a situazioni nuove, contesti che non sono a me già noti, già visti. Questo approccio lo adotto sia per indole sia perchè in determinate situazioni mi piace lavorare con l’immaginazione.

L’Aquila è stata fortemente connotata dai media: un fotografo in questa città già sapeva cosa doveva scattare, ma io ho sentito questa cosa come una costrizione, mi stava stretta. Per me è stato più interessante astrarla dall’immaginario che si era imposto, raccontando invece una città possibile, non necessariamente reale

Il tuo approccio sembra subire infulenze non solo dal campo fotografico.

Ho studiato per diversi anni fotografia, mi viene naturale, ma non sono legato così fortemente alla fotografia. Ultimamente trovo piccole resistenze in questo senso, ma è naturale che il tanto impegno messo in campo per lungo tempo mi permette di risolvere in immagini fotografiche cose che nascono fuori dalla fotografia. La fotografia per me è un veicolo. Credo sia lo stesso anche per le altre pratiche artistiche; musica, letteratura, pittura, ecc: quello che fai con quel mezzo nasce fuori da quel mezzo, e probabilmente vuoi che abbia conseguenze al di fuori della fotografia stessa.

Tornando al progetto Potenza 100?

Bisogna tornare ad un anno prima dell’inizio del progetto. Per una serie di ragioni che non saprei ben motivare, semplicemente per puro interesse e piacere personale, mi sono avvicinato alla fantascienza. Nel caso di Potenza 100 è stato l’incipit, lo stimolo che si è tradotto poi nel progetto, almeno per quanto riguarda la forma.

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Parlando invece delle conseguenze?

Non ti so ancora rispondere in maniera concreta perchè quello che si vede non è la forma finale. Il teaser di cui ho parlato prima è stato sviluppato in quella forma perchè mi era stato chiesto di partecipare ad una selezione per Slideluck. Nei pochi giorni che avevo a disposizione la forma del teaser mi sembrava potesse meglio rappresentare lo stato dell’arte del lavoro. Per mia fortuna è stato apprezzato ed ha avuto un buon riscontro. Stiamo comunque parlando di un teaser, di qualcosa che rimanda ad una forma più concreta del lavoro che ancora deve trovare il suo naturale sviluppo. Questa forma probabilmente non sarà un libro e non necessariamente una mostra: forme giustissime, nulla da obiettare, che però diamo un po’ per scontato. Questo lavoro ritengo abbia bisogno di una forma di pubblicazione diversa, che devo ancora trovare.

Hai qualche idea in proposito?

La forma produce effetti diversi. Quello che mi potrebbe interessare, si dovrebbe sviluppare su due livelli: il primo è riuscire a far ragionare l’osservatore, non necessariamente un fotografo professionist, mettendo in evidenza un tema che parla di una regione che si pensa di conoscere, in una forma che non si conosce.

Il secondo livello, che gira più da vicino attorno al mondo fotografico, riguarda il linguaggio che ho utilizzato. Un linguaggio documentario che però sottolinea l’impossibilità di documentazione.

Cosa intendi?

La mia non vuole essere una critica o una polemica, parlo semplicemente di alcune pratiche e nella fattispecie linguaggi che ritengo sovrautilizzati, mi hanno annoiato e spesso le ritengo inautentiche. Quello che faccio è spingere questa inautenticità all’estremo.


Roberto Boccaccino è un fotografo freelance. Si dedica maggiormente a lavori di ricerca e documentazione a lungo termine. Nel 2009 ha frequentato il corso avanzato di visual storytelling presso la Danish School of Media and Journalism ad Aarhus, in Danimarca. Il lavoro conclusivo del percorso di studi ha ricevuto una menzione speciale al Fnac Award del 2010. Per Internazionale ha realizzato un progetto sui giovani libanesi di beirut, diventato poi un lavoro più ampio su una generazione. Ha ricevuto altri prime, realizzato diverse mostre e pubblicato per diverse riveste nazionali ed internazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro Boy Old Boy con Witty Kiwi.