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Le elezioni del Regno Unito stanno diventando una costante fonte di sorprese.

Dopo l’inaspettata vittoria del Leave al referendum sulla Brexit e l’addio di David Cameron, che aveva portato Theresa May a Downing Street, il Primo Ministro ha deciso di chiamare nuovamente i cittadini alle urne. Il suo obiettivo era ottenere la legittimazione popolare che le mancava, e rafforzare la propria maggioranza. Non ci è riuscita.

Fin dagli exit poll si è capito che Westminster si sarebbe tramutato in un “hung parliament”, un parlamento senza maggioranza. Uno scenario simile si era presentato l’ultima volta nel 2010, ma i conservatori erano riusciti a convincere i Libdem a entrare in coalizione con loro. Difficile che accada di nuovo: nessuno al momento vorrebbe affiancarsi ai Tories, ma nemmeno un eventuale accordo con i laburisti raggiungerebbe la fatidica soglia di 326 deputati.

Ma cosa ha portato alla sconfitta di Theresa May, così lanciata nei sondaggi?

Un mix letale di scarsa personalità e di un programma traballante. May ha cercato di convincere il pubblico di essere “forte e stabile”, mostrandosi poi iraconda e contraddittoria, smentendo nei fatti l’immagine di sé che ha tentato di proiettare. La volontà era quella di allargare il bacino elettorale dei conservatori, posizionandosi in un centro lasciato libero da un Labour sempre più spostato a sinistra e al tempo stesso fagocitare il voto nazionalista e sovranista dell’Ukip.

Un tentativo che ha annacquato l’impostazione ideologica “tradizionale” dei conservatori, cercando di imporre un cocktail di red toryism e autoritarismo all’amatriciana lontano dal liberismo hardcore thatcheriano o dalla big society di Cameron. Il risultato è stato un manifesto che mischiava l’austerity alla spesa pubblica, che colpiva l’elettorato di riferimento dei Tories, gli anziani, e su cui May ha dovuto fare un testacoda, precisando la necessità di mettere un tetto ai contributi richiesti per l’assistenza sanitaria.

È stato talmente un successo che l’autore del manifesto, Ben Gummer, ha perso il suo seggio di Ipswich. Sulla leader conservatrice si è fatto sentire anche il peso del terrorismo, con i recenti attacchi a Westminster, Manchester e London Bridge. May è stata negli ultimi sei anni ministro degli interni, ed evidentemente non è riuscita a controllare né la radicalizzazione dei giovani a rischio, né il ritorno dei foreign fighters. I tagli all’organico di polizia hanno solo peggiorato la situazione. Ora i conservatori sopravvissuti al tracollo sono furiosi e vogliono le sue dimissioni. La formazione di un governo rimane operazione complessa.

Se a May trema la voce quando pronuncia il suo amaro discorso dal seggio di Maidenhead, Jeremy Corbyn sorride da quello di Islington.

Il leader laburista è riuscito in un’impresa senza precedenti: ha recuperato 23 punti di svantaggio sui Tories e ha ottenuto il 40%, un risultato che non si verificava dal 2001 con Tony Blair. Punto forte della sua campagna è stato senza dubbio la personalità: si è dimostrato solido, istrionico dominatore delle piazze, che si riempivano per ascoltarlo. È apparso sicuro di sé, pronto alla battuta, autoironico e molto meno irascibile di quanto ha dato l’impressione di essere durante gli scontri in parlamento con la maggioranza.

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Ha conquistato il voto dei giovani, riuscendo a portarli alle urne. Ma soprattutto è riuscito a rendere mainstream un programma di sinistra radicale, sconfiggendo i suoi rivali “moderati” in due congressi in due anni, grazie a un nocciolo duro di sostenitori. Ha numeri da record tra gli iscritti, con quasi 500.000 preferenze. Il movimento che lo ha sostenuto, Momentum, è stato cruciale nell’organizzazione delle sue campagne elettorali, ed è riuscito a rendere appetibili al grande pubblico idee ben più estreme di quelle avute dal Labour degli ultimi vent’anni. È un Bernie Sanders che ce l’ha fatta, complice il radicamento del partito sul territorio, il supporto improvviso di deputati e giornali (il Guardian) che prima erano scettici, e l’aiuto dei sindacati.

Una rimonta che, a pochi giorni dal voto, lo stesso Corbyn ha paragonato a Milan-Liverpool.

Ora la situazione del Regno Unito è più incerta che mai. Theresa May ha annunciato che tenterà di costruire un nuovo governo con gli unionisti nordirlandesi del DUP e qualche deputato indipendente, ma si tratterebbe di una maggioranza tenuta insieme con la colla. Jeremy Corbyn e alcuni deputati conservatori hanno chiesto le sue dimissioni.

Formalmente, May è un Primo Ministro “uscente”: basterebbe che si dimettesse da leader dei conservatori, e che questi scegliessero un altro candidato che chieda l’incarico alla Regina. May, testarda, pare non voler prendere in considerazione l’ipotesi. Ma i Tories sembrano intenzionati a farle cambiare idea.


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