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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo (in questo caso molti di più), e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Giulio Rimondi del suo libro Italiana e della fotografia umanistica.


Giulio, il tuo sito apre con una foto, il tuo nome e la scritta “Humanistic Photography.” Come mai questo termine?

Per due motivi: il primo è perché provengo da studi classici, e diventando poi fotografo ho cercato di dare una declinazione in tal senso nella mia attività, nella fase di produzione di immagini. Il secondo è perché tutto quello che propongo in fotografia, come concetto che sta alla base della mia fotografia, è riassunto in questa definizione. Humanistic photography secondo me implica tante cose, di cui la prima e la più importante è sicuramente l’approcio lento che adotto nella realizzazione di un progetto e che chiedo agli osservatori: un clima mentale differente. Credo che la fotografia umanistica richieda un minimo di conoscenza della classicità, diversamente non credo si riesca a cogliere appieno questo tipo di fotografia. Questo passa anche dal clima mentale, dalla predisposizione dell’osservatore nei confronti di questo tipo di fotografia: richiede tempo e un po’ di attenzione in più rispetto a quella che mi sembra sia la tendenza attuale, ossia fotografie che devono essere viste velocemente, che impressionano perchè viste velocemente. Io propongo esattamente l’approccio opposto.

Cosa ne pensi della produzione attuale e del modo di veicolare oggi la fotografia?

Risponderei dicendo che in realtà di produzione attuale non ce ne sia, almeno in senso classico. Per produzione intendo l’artista e/o il fotografo che lavora in collaborazione con il produttore: in questo contesto mi sembra che la produzione sia carente.

Il problema, ed è la mia grande critica a un sistema che non funziona in questi termini, è che da un lato ci sono tanti autori che si propongono e che si mettono in opera da soli, anche con buoni risultati. Dall’altra parte non penso sia giusto a livello generale adottare questo sistema come status quo, come sta succedendo, in quanto l’effetto è il blocco del mercato.

Nel momento in cui la tendenza di tanti fotografi freelance è quella di creare un prodotto finito, spesso proprio in forma di libro, inevitabilmente il mercato diventa saturo e ogni lavoro viene svalutato.

Per quanto riguarda il modo di veicolare i lavori, ti dirò, io sono abbastanza rudimentale, nel senso che se facevo un libro dovevo avere un editore che mi portava in libreria, un curatore che scrivesse i testi e così via. Tieni inoltre presente che ho aperto la mia pagina Facebook solo per lanciare il crowdfunding del mio libro. Non ho un account personale, non ho Instagram, Twitter. Credo che i social abbiano un grandissimo potenziale, ma solo se usati in maniera critica, diversamente, ogni cosa che viene immessa perde consistenza.

Quindi come si riconosce un artista in mezzo alle numerosissime proposte?

Una riflessione iniziale va fatta dicendo che oggi un fotografo o un artista si può notare nel momento in cui lui stesso è in grado di proporsi. Poi, personalmente, i miei colpi di fulmine vengono vedendo certi autori di cui riconosco la capacità di raccontare, innanzitutto. Devo anche ammettere che capita di trovare autori che non abbiano piena coscienza di quello che producono, probabilmente perchè non hanno quel senso critico di cui parlavo: a me questo lascia basito, onestamente.

Cosa ti ispira di più, fotografia o letteratura?

La letteratura, tantissimo; tutti gli autori che hanno una forte componente visuale nella loro prosa, e ce ne sono tanti. Nella mia carriera la letteratura ha sempre avuto un ruolo importante: per il primo libro che ho fatto nel 2011, su Beirut, ho lavorato con un vecchio poeta libanese; il secondo lavoro, su Algeri, è ispirato da alcuni scritti solari di Albert Camus, testi dalla componente visuale molto rilevante. Anche nel caso del libro Italiana, l’idea è arrivata anche grazie ai miei autori italiani preferiti come Corrado Alvaro, Cesare Pavese e Beppe Fenoglio. rimondi_italiana-16

Sei stato per diversi anni a Beirut, cosa ci racconti di quegli anni?

A dire il vero quel tempo è semplicemente in sospeso. Ho legami affettivi a Beirut e a breve ci tornerò: non si parla di un tempo concluso. Beirut fa parte del lavoro della vita potrei dire, insieme all’Italia e ad altri paesi che esplorerò e che faranno parte di una riflessione sul Mediterraneo. Beirut comunque l’ho trovata strategica come punto di riferimento, culturalmente molto attiva, e anche affascinante, ha un allure che non ho trovato da nessun’altra parte.

Tornato in Italia, hai iniziato a lavorare da subito su Italiana, il lavoro che proponiamo.

Si, Italiana l’ho iniziato nel 2013, aprendo la porta di casa e andando praticamente a piedi a Venezia. Venezia non era la meta, ma un primo punto di arrivo raggiunto andando a destra e a sinistra per i vari paesi che incontravo, semplicemente facendomi ispirare da quello che mi capitava sul tragitto.

Ho fatto una sorta di Grand Tour contemporaneo, purtroppo con pochi fondi, nessun percorso prestabilito, ma con la curiosità di essere vicino al paese e alle persone che incontravo.

Come l’hai concepito e sviluppato?

L’ho concepito come un lavoro sull’identità italiana e sul rapporto tra il contemporaneo e il moderno. Durante il tragitto però, è successo che il viaggio in sé ha preso il sopravvento rispetto all’idea originaria: il risultato finale è un insieme di ispirazioni, ambiti e contesti, conoscenza diretta dei paesi e delle persone che ho incontrato lungo la mia strada, e che si sono mischiati in maniera libera. Sicuramente l’ispirazione rimane più letteraria, come se fosse un racconto breve, maturato però in un tempo lungo, quasi tre anni e mezzo in totale.

Un viaggio da nord a sud?

No, il viaggio è stato senza itinerario prestabilito a priori, con l’intento di voler coprire la maggior parte del paese. C’è stato un primo momento in cui ho fatto Bologna-Venezia, poi è stata la volta di Roma, girovagando nel Pontino, la Maremma, arrivando al Carso, per poi dirigermi verso Trieste da una parte e la Liguria dall’altra. È stato fatto tutto sul momento e, non avendo un budget elevato, ho distribuito tutto il mio percorso in viaggi da un paio di giorni fino a due settimane nel corso di questi tre anni.

Il tuo è un lavoro che riflette su quello che l’Italia ha e su quello che l’Italia offre?

Sicuramente è un lavoro meditato e partecipato, in qualche modo anche sofferto, in senso empatico oltre che fisico. Il progetto ha un tono drammatico, credo che l’Italia si riveli ancora in maniera molto forte e diretta anche nelle cose più semplici: io per esempio ho deciso di fotografare principalmente luoghi non riconoscbili, non volevo restituire l’idea di un’Italia cliché, da cartolina, e non volevo fotografare e riprendere personaggi particolari, la cui caratterizzazione avrebbe prevalso su questo senso di condivisione tra attore e spettatore.

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C’è una foto che spiega forse questo tipo di emozione, una sorta di sospensione: ritrae una folla in una piazza, ma non sappiamo esattamente cosa stiano facendo, quale sia il motivo per cui sono rivolti tutti verso una unica direzione.

Esatto, ti lascia in sospeso perché viviamo in un tempo sospeso. Inoltre, quello che cerco di fare attraverso le mie fotografie è di non giudicare. Quando Christian Caujolle ha scritto il testo (introduzione al libro, ndr) ha detto quello che io mi sentivo di fare, e a cui però non avevo ancora dato un nome: c’è una grande tenerezza, non c’è giudizio.

Un curatore autorevole peraltro.

Christian Caujolle lo conoscevo da tanto, e ho voluto fortemente che fosse lui a scrivere il testo all’interno del libro; per questo ha tutta la mia gratitudine. Cercavo una persona che non sapesse solo di fotografia: tanti critici sono specializzatissimi nel settore, ma non hanno la stessa sensibilità in altri campi. Caujolle per intenderci conosce Pavese, lo ha letto, e per come vivo io un libro è quello di cui più avevo bisogno.

Anche l’ultima foto del libro, quella che ritrae i cadetti della Marina Militare, sottende questo?

La fotografia umanistica, tornando al discorso iniziale, richiede empatia tra autore e fruitore dell’immagine: bisogna tenere presente che la stessa cosa vale anche per i soggetti che vengono ritratti, il tipo di attenzione e di condivisione è il medesimo. Nella fotografia umanistica, questo aspetto si sviluppa su tutti i livelli.

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Cosa significa aver realizzato Italiana come libro.

Un libro rimane un libro, lo puoi toccare, è fatto di carta, è tangibile; a me piacciono tantissimo, ne ho tanti e ne ho letti tanti.

Per quanto riguarda Italiana l’ho voluto fare in forma classica: un mio breve testo, un saggio del curatore e le foto. Proporre oggi un libro classico, che non vuole stupire, diventa un atto di rivolta, questo è il mio contributo. Fare un libro senza particolari stratagemmi grafici, senza attrattive in termini di layout, di design, anche del tema trattato, è veramente un atto di rivolta perché tanti cercano la stravaganza oggi, l’originalità, la novità a tutti i costi.

Quello che io ho cercato di fare è legarmi a una tradizione, provando ad ancorare il progetto fotografico ad una dimensione letteraria.


Giulio Rimondi è fotografo e viaggiatore. Ha seguito studi classici fino alla laurea in “Lettere e Storia dell’Arte” all’Università di Bologna. La sua ricerca artistica si sviluppa attorno al tema dell’identità culturale e sociale del Mediterraneo. Giulio persegue una visione umanistica della fotografia, tesa a cogliere la dimensione intima, personale del soggetto. Le sue immagini fanno parte della collezione della Maison Européenne de la Photographie di Parigi, della Library of Congress di Washington, dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia e della Fondazione Fotografia della Cassa di Risparmio di  Modena, oltre che di numerose collezioni private. Giulio ha esposto in numerose mostre personali e collettive, in gallerie, musei festival e saloni d’arte internazionali. I suoi reportage sono stati pubblicati su TIME, The New York Times-Lens, CNN, National Geographic, Internazionale, Repubblica, Leica Fotogra e International. Ha pubblicato due libri: “Italiana” per le edizione d’arte Kehrer (Germania) nel 2017 e “Beirut Nocturne” per Charta (Milano-New York) nel 2011. Le sue immagini hanno ricevuto il “Lead Award” in Germania per la fotografia contemporanea, il “Premio Storico San Fedele” per l’arte contemporanea, lo “Special Award” per la fotografia italiana e l”Iceberg Award” per la giovane creazione. Giulio è regolarmente invitato a tenere workshop di fotografia internazionali, spesso legati all’università di Beirut con cui collabora da anni.