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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Sara Lorusso, 21 anni, di cui vi proponiamo una selezione delle sue fotografie, un’indagine intima e personale sul proprio corpo.


Sara Lorusso è una giovane fotografa nata a Bologna nel maggio del 1995. Dopo il liceo frequenta un corso annuale alla scuola di fotografia Spazio Labò e successivamente si iscrive all’Accademia di belle Arti a Bologna, dove attualmente studia fotografia e cinema.

Su Diaframma abbiamo presentato lavori sui luoghi o sulla condizione delle persone nel mondo. Cosa stiamo esplorando nel tuo caso?

Stiamo esplorando più che altro me stessa, quello che sono io tutti i giorni. La mia visione sul mondo attraverso la fotografia, che rappresenta ciò che sono e che faccio.

Molti fotografi indagano se stessi attraverso il corpo. Che significato ha per te, in questo senso, esporsi, esibirsi?

È uno dei punti più forti della fotografia da sempre. Quando qualcuno ha un disagio personale o vuole raccontare una storia, cerca sempre di mettere se stesso e quello che lo circonda all’interno di una fotografia, in modo tale da permettere agli spettatori di immergersi in questo mondo, questa nuova realtà.

Le storie si possono anche raccontarte a parole, ma la differenza con la fotografia è che hai modo di vedere realmente quello che ti voglio raccontare. Da sempre la fotografia è stata una delle espressioni personali o per raccontare storie perfetto, il più esplicito. Io personalmente ero timida, non raccontavo  a parole quello che volevo; con la fotografia questo mi è riuscito. Magari non a tutti è arrivato il messaggio, ma il gesto di per sé mi ha dato modo di parlare per immagini.

Hai iniziato a 16 anni a scattare, c’è sempre stato un fil rouge che lega il tuo lavoro?

Quando ho iniziato mi dedicavo molto alle persone perchè sono coloro che vivi maggiormente, quelle con cui stai di più: è stato naturale e istintivo parlare di loro, o meglio, per me è stato istintivo. Allo stesso modo se qualcuno si interessa di architettura può benissimo dire che si ritrova in questo genere perchè l’archtitettura ci circonda. Una volta deciso di dedicarmi alle persone sono passata a più step ad accorgermi che non solo le persone, ma anche agli oggetti catturavano la mia attenzione; ho cercato di unire questi due aspetti: le persone e gli oggetti circostanti. Da qui è nato essenzialmente il mio lavoro che si concentra sull’accostamento dei due soggetti, la figura umana e gli oggetti naturali. È da queste considerazioni che ho trovato il tema di fondo su cui ho poi costruito i miei progetti.

Qual è il tema?

Per ora il tema che sto portando avanti è appunto il contatto tra la natura e l’essere umano. Ritrovare alcuni apsetti del nostro corpo, del nostro quotidiano in oggetti naturali, materiali, forme che si somigliano. Se volessimo dare un nome a questo tema, sarebbe la donna, il corpo umano, ma il mio interesse principale è stato quello di far ritrovare un accordo tra oggetto e parte del corpo.

Ho avuto modo di esplorare il tema della sessualità femminile, ma non è stato il mio primo intento. Una delle serie che ho realizzato si chiama proprio Sessualità.

Ci hai raccontato il tuo percorso fatto a step. Riguardando oggi la tua produzione cosa vedi, una Sara nuova, o Sara è rimasta sempre se stessa?

La fotografia mi ha portato a conoscere tante persone e fare nuove esperienze, sia dal punto di vista fotografico che da quello personale, di crescita. Mi sono molto riscoperta; prima non sapevo bene chi fossi e forse anche adesso, ma di certo ho maggiore consapevolezza. Se guardo le mie vecchie foto a volte mi ci ritrovo e a volte no. Ora vorrei semplicemente andare avanti con i tanti progetti che ho in mente, senza essere succube delle mie precedenti esperienze fotografiche.

E invece da chi osserva le tue foto che feedback ricevi?

Spesso è successo che, non conoscendomi e basandosi solo sulle foto che potevano vedere, le persone pensassero che io fossi tutta un altro tipo di persona. Un americano addirittura mi scrisse sostenendo ironicamente che ero una persona normale; lui si immaginava una persona piena di tatuaggi, dai capelli strani. Io gli chiesi perchè, sulla base di cosa lui si fosse fatto questa idea: si basava sulle foto che facevo. Sinceramente non penso che una persona possa essere giudicata in base alle foto che fa. Io mi ci rivedo nelle foto che faccio, ma questo non vuol dire che se mi piace un tipo di persona, un tipo di stile fotografico allora posso ricadere in un tipo di persona stereotipato.

La parola intimità, può legare il lavoro che presentiamo, nel suo complesso?

Si, se qualcuno mi chiedesse una parola, utilizzerei questa per descrivere le mie fotografie: all’interno c’è il mio quotidiano, che sicuramente è la parte più intima della nostra vita