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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Federico Torra, di cui vi proponiamo una selezione delle foto che sono state in mostra presso lo studio Blanka di Milano, nella mostra Concrete.


Federico Torra, ha 30 anni, è laureato in storia dell’arte contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano. Durante gli studi si è diplomato al CFP Bauer in fotografia, percorso che prosegue da anni in maniera professionale.

Le tue fotografie sembrano in equilibrio tra l’astratto e il concreto: il titolo della mostra vuole essere un suggerimento per la lettura di queste fotografie?

Il titolo prende spunto dal doppio gioco tra la concretezza dei luoghi e la materia rappresentata: il cemento (in inglese, concrete, ndr), perché è un materiale interessante, quello con cui sono stati costruiti gran parte degli edifici degli ultimi 50 anni. È dunque qualcosa di presente e duraturo nell’architettura e nella città in generale. La concretezza dei luoghi è intesa nella sua accezione di presenza fisica rilevante all’interno di un paesaggio, qualcosa che vorrei superare nell’atto di fotografarli. Facendo mie queste architetture, cerco di riprenderle con uno scorcio rigoroso ma insolito, anonimo, riportando dunque la rappresentazione su un piano astratto.

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Sempre giocando sul titolo, le fotografie in mostra non parlano solo di cemento; qual è il tuo sguardo sull’architettura?

Certamente il titolo non è monodirezionale. Ha un senso evocativo: che io abbia ripreso una finestra o un albero, è l’accostamento e il sentimento che deriva da questi accostamenti che mi interessa. Il cemento, oltre agli aspetti storici recenti, è un materiale molto drammatico, pregno dello scorrere del tempo. Il cemento viene colato all’interno di assi di legno, che lasciano la loro impronta; sul cemento si sedimenta il muschio. È dunque un materiale povero che diventa paradossalmente naturale se viene abbandonato a sé stesso.

Cosa ti ha guidato nella scelta dei luoghi e delle inquadrature?

Ci sono luoghi che ho scelto e altri che ho incontrato. Il monastero della Tourette è uno dei luoghi che ho scelto, e ho vissuto per tre giorni, continuando a scoprirlo girandogli attorno. In questa passeggiata ho cercato di trovare una interpretazione, guardandolo soprattutto come luogo silenzioso. In altri casi mi sono concentrato su luoghi e scorci che trovavo per strada, lasciandomi trascinare da quello che trovavo. Sono presenti, riferendomi a Milano, la Cà Bruta e la Fondazione Prada, che non ho fotografato intenzionalmente, ma perchè mi trovavo lì e qualcosa ha catturato la mia attenzione. C’è il Portogallo e le architetture di Alvaro Siza, da cui sono molto attratto, così come le architetture di Le Corbusier o Mies Van Der Rohe.

Scatti in analogico: scelta dettata dai tempi o dal gusto personale?

Ho sempre scattato molto in analogico, anche quando scatto con il digitale ho lo stesso approccio. L’analogico mi permette di avere maggiore distanza dal risultato fotografico; non preoccupandomi immediatamente di come la foto sia venuta, riesco a concentrarmi maggiormente sul soggetto, a entrare in sintonia con esso. Vedere le foto a distanza di tempo, dimenticarmi alle volte di averle fatte, risulta essere una selezione naturale. Con l’analogico raramente faccio più di uno scatto, a meno che non mi renda conto di aver fatto un errore. Con la macchina digitale non sarei mai contento potendone vedere all’istante i risultati.

Parliamo della luce nelle tue fotografie: sicuramente è determinante non tanto nel definire la forma dei soggetti quanto nell’atmosfera che lega tutte le immagini.

I miei scatti sono realizzati sia in luce diffusa che con luci dirette, sebbene in questi casi le ombre non siano mai drammatiche, da fotografia in bianco e nero.

Quello che mi colpisce e che mi interessa è sempre il momento in cui la luce restituisce un immagine irreale, di sogno. La luce non è mai autonoma all’interno degli scatti, l’atmosfera che viene suggerita è il soggetto.

Hai una formazione artistica, oltre che fotografica. Come senti che siano entrate in gioco queste due forme d’arte nella realizzazione di un lavoro che si incentra, invece, sull’architettura?

L’architettura mi ha sempre interessato come spazio: la vedo come una scatola al cui interno viene regolata la vita delle persone. Questa idea vale non solo per l’architettura ma anche per la città nel suo complesso. Un altro aspetto che mi interessa dell’architettura è il legame con il tempo. Le architetture nascono secondo un progetto, che nel tempo viene abbandonato naturalmente una volta che gli spazi prendono vita e vengono vissuti. È come se le architetture fossero abbandonate al tempo una volta realizzate.