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Di fronte ai crescenti casi di suicidio e dolore autoinflitto, è fondamentale iniziare a trattare i casi di depressione tra i migranti.

In Svezia c’è una parola per descriverla. Si chiama uppgivenhetssyndrom: sindrome della rassegnazione. È uno stato catatonico che è stato rilevato solo nel paese e solo tra rifugiati — pazienti che non hanno mai manifestato problemi di salute fisica o neurologica, che, di fronte alla minaccia di deportazione, spesso dopo anni di stress, perdono la forza di vivere, letteralmente: cadono in un coma apatico. “Come Bianca Neve,” commenta un dottore che ha diagnosticato svariati casi, a Stoccolma, per il New Yorker — in un lungo servizio di Rachel Aviv che uscirà sul numero di lunedì prossimo.

Dai primi anni Duemila, quando per la prima volta è stata diagnosticata la uppgivenhetssyndrom, in Svezia sono stati registrati centinaia di casi. La maggioranza di questi casi non comprende soggetti provenienti dalla attuale crisi migratoria — sono figli di migranti di stati dell’ex blocco Sovietico, spesso provenienti dall’ex Jugoslavia. Tantissimi sono roma.  

La principale testata medica svedese, Läkartidningen, ha approfondito più volte l’argomento, mentre 42 psichiatri hanno firmato una lettera in cui accusano il governo di praticare “abuso infantile sistematico” sui figli dei migranti.

Due settimane fa, nel ricordare il primo anno del disumano accordo tra Europa e Turchia, svariate ONG hanno pubblicato analisi della situazione dei migranti, e molti si sono soffermati sulle condizioni dei bambini, tra cui Save the Children, che ha dedicato un intero report all’argomento.

Abbiamo trattato l’argomento più di una volta negli ultimi due mesi, quello che non solo Save the Children ma anche MSF chiama “sofferenza eterna” è un problema organico alla gestione dell’emergenza rifugiati, un problema che sembra che chi ha in prima battuta studiato queste politiche non abbia nemmeno preso in considerazione.

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A differenza di quanto avvenuto una decade fa in Svezia, la medicina non ha ancora affrontato competentemente i casi di depressione nei casi di migrazione — soprattutto per canali illeciti — in età contemporanea. Al di là dell’impegno di innumerevoli valorosi psicologi e psichiatri, che lavorano quotidianamente nei centri statali, di ONG, e dell’OMS, non esiste un vero corpus di ricerca su come affrontare i casi di disturbo post traumatico da stress (PTSD) nei rifugiati, lasciandoli costretti a modificare materiali al volo, improvvisando caso per caso.

A inizio mese Univision Digital, divisione online della media company ispanico-statunitense, raccontava il caso di tanti migranti sans papier trattati da terapisti latinos con EMDR, una tecnica nota in Italia come Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari, che nella migliore delle ipotesi può essere considerata come una forma altamente sperimentale di trattamento psicoterapeutico del PTSD.

Secondo linee guida dell’OMS del 2013, i casi di trattamento con EMDR considerati come valida raccomandazione di applicazione variano tra il moderato e il molto basso.

Non è una novità che negli Stati Uniti, soprattutto tra gli indifesi, si ricorra a trattamenti non convenzionali. L’efficacia o meno dell’EMDR va al di là delle ragioni di questo articolo — la questione fondamentale è trovare i canali medici, supervisionati, con cui affrontare il mostro.

Finalmente, un articolo pubblicato ieri dall’OMS inizia ad attestare gli sforzi dell’Occidente nel trattare i casi di depressione cronica tra i rifugiati. Si sottolinea come lo scorso anno l’OMS abbia formato 37 dottori per offrire supporto psicologico ai siriani: un’assistenza strettamente necessaria — prima dell’arrivo dei dottori, nell’intera Siria del Nord erano presenti due psicologi in totale.

In Turchia, dove l’accesso a strutture di supporto a volte è difficile, se non impossibile, l’OMS si occupa di formare non solo medici che sono sfuggiti alla guerra con le proprie famiglie, ma anche semplici membri della comunità che si dimostrano psicologicamente più stabili, perché svolgano un’attività di “prima linea di difesa” — un ruolo particolarmente importante per educare chi ha bisogno di assistenza a chiedere aiuto, qualcosa che è particolarmente difficile tra malfidenza, PTSD, e stigma.

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