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La sovrabbondanza di petrolio ha causato il calo drastico del suo prezzo, con conseguenze drammatiche sul settore energetico americano e sul livello delle riserve monetarie saudite.

Prima premessa: Se il mercato per una risorsa è in equilibrio, sia i fornitori sia i consumatori ne giovano. I primi sono disposti a produrne esattamente la quantità che i secondi richiedono, e la fanno pagare ad un prezzo che rimane costante.

Seconda premessa: Il mercato petrolifero non è mai in equilibrio.

In particolare, gli ultimi due anni e mezzo sono stati caratterizzati da una straordinaria sovrabbondanza di offerta. Gli Stati Uniti, grazie allo sfruttamento dello shale oil, sono diventati il maggiore produttore mondiale di petrolio. L’Arabia Saudita, leader dell’OPEC, come da tradizione, ha lottato per mantenere la propria quota di mercato, aumentando le estrazioni fino a livelli record.

Contemporaneamente, i consumi in Europa stanno stagnando, e il rallentamento della crescita economica cinese ha frenato anche il fabbisogno energetico del colosso asiatico.

La sovrabbondanza di petrolio ha causato il calo drastico del suo prezzo, con conseguenze drammatiche sul settore energetico americano (100 mila licenziamenti nel 2016) e sul livello delle riserve monetarie saudite.

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A fine 2016, in un tentativo disperato di raggiungere un bilanciamento che avvantaggerebbe chiunque, i Paesi dell’OPEC, congiuntamente con 11 Paesi esterni all’organizzazione, hanno deciso di ridurre la produzione di petrolio di 1,76 milioni di barili al giorno (più o meno il 2% dell’offerta globale). Questo accordo ha assunto un carattere storico per diverse ragioni. In primis, erano 8 anni che l’OPEC non diminuiva il livello di output. In secondo luogo, tra i Paesi aderenti all’accordo c’è anche la Russia, che mantiene posizioni geopolitiche contrastanti con i sauditi ma che condivide con essi l’urgenza di riequilibrare il prezzo del petrolio.

L’annuncio dell’accordo e la sua effettiva implementazione hanno portato stabilità, e da Dicembre 2016 a Marzo 2017 il prezzo del petrolio si è assestato intorno ai 55$ al barile, muovendosi in un range strettissimo per tutta la durata del periodo. Mercato in equilibrio, prezzo stabile e tutti contenti così? No.

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Negli Stati Uniti, i pozzi d’estrazione sono raddoppiati rispetto a 12 mesi fa, e a partire da Dicembre 2016, quando a seguito del patto OPEC/non-OPEC il prezzo del petrolio ha accelerato, il ritmo di estrazione americano è andato di pari passo. In più, nel bel mezzo del CERAWeek a Houston (di cui abbiamo parlato su Eco), è uscito un rapporto dell’EIA che ha rivelato che nel 2017 la produzione totale di petrolio raggiungerà i 9,2 milioni di barili, fino ad arrivare ad un record di 9,8 milioni nel 2018. Nello stesso report, si segnala che le riserve americane sono aumentate per la nona settimana di fila.

A Houston, dove i lavori per la più importante conferenza mondiale del settore erano iniziati con molto ottimismo, i volti si sono rabbuiati. All’alba del quarto giorno di incontri, il petrolio era già calato dell’8% rispetto all’inizio della conferenza.

Khalid al-Falih, ministro dell’energia saudita, ha ritrattato una sua dichiarazione di Gennaio, quando negò la necessità di estendere l’accordo oltre giugno 2017. Nel farlo, ha chiarito che i rappresentanti dei Paesi aderenti si ritroveranno a Maggio per decidere se estendere i tagli alla produzione o meno.

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Harold Hamm

Harold Hamm, amministratore delegato di Continental Resources, una delle dieci maggiori compagnie petrolifere americane, ha dichiarato che una crescita incontrollata dello shale potrebbe “uccidere il mercato”.

Secondo Aleksandar Novak, ministro dell’energia russo, la rediviva industria americana non rischia di controbilanciare quello che di buono ha ottenuto l’accordo OPEC/non-OPEC: “il mercato è complesso, e lo shale non è l’unico fattore.”

Ha ragione, ma tutti gli altri indicatori non sono affatto rassicuranti. Il recente aumento del tasso d’interesse da parte della Federal Reserve ha reso più appetibile il dollaro, che diventa una moneta sempre più forte. Storicamente, l’andamento del dollaro e il prezzo del petrolio hanno una relazione inversa. Se il dollaro si fortifica, servono meno soldi per comprare petrolio, e il suo prezzo cala.

Anche le quotazioni dei contratti future sul prezzo del petrolio sono calate a picco, registrando la più grave perdita giornaliera dopo oltre un anno nella notte tra l’8 e il 9 Marzo. Gli speculatori hanno già iniziato a vendere in massa, modificando la struttura del mercato a svantaggio dell’Arabia Saudita.

Al Falih Khalid
Al Falih Khalid

Insomma, l’Arabia Saudita sembra essere tornata al punto di partenza. Alcuni Paesi firmatari dell’accordo hanno “barato” sui tagli alla produzione; Libia e Nigeria, escluse dalle obbligazioni del patto hanno aumentato la produzione (rispettivamente di 180 e 80 mila barili al giorno nel mese di Febbraio); gli Stati Uniti stanno vivendo un revival dello shale boom del 2014. Questi fattori più che controbilanciano i tagli alla produzione operati dall’OPEC.

L’obiettivo dichiarato di ripianare le riserve internazionali di petrolio al livello medio quinquennale sembra impossibile da perseguire. Attualmente gli Stati hanno “in pancia” il 20% di petrolio in più della quantità media degli ultimi 5 anni. Pare irrealistico cercare di drenare una quantità tale di greggio entro maggio. Di conseguenza, un’estensione temporale dei tagli alla produzione è praticamente una certezza.

L’atteggiamento aggressivo dei produttori statunitensi può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Rispondendo solo a segnali di prezzo (aumentare la produzione solo quando il prezzo aumenta, viceversa quando scende) e ignorando i volumi presenti sul mercato, si rischia di causare un secondo oil glut, che avrebbe conseguenze devastanti su tutto il settore. Se il prezzo crollasse ancora sotto i 30 dollari ricomincerebbe il ciclo vizioso di licenziamenti e fallimenti a causa della scarsa economicità dell’industria.

Questo comporterebbe l’assenza di liquidità per implementare investimenti nei settori di esplorazione e di estrazione. Nel lungo periodo significa perdere potenziale produttivo.

Se le previsioni della IEA sono corrette, nei prossimi cinque anni la domanda di petrolio sorpasserà i 100 milioni di barili al giorno.

Pompare petrolio è umano. Ma trovarsi tra un lustro con meno petrolio del necessario perché si è esagerato in precedenza sarebbe diabolico.