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Quando ho pensato di scrivere questo pezzo sulla conferenza/presentazione di Propizio è avere ove recarsi — ultima pubblicazione di Emmanuel Carrère, in Italia con Adelphi — tenutasi il 19 marzo al Teatro Franco Parenti, mi sono chiesto due cose: 1) il perché di un titolo tanto snob (è vero che si parla di Carrère, cioè di un egotomane pieno di sé, ma mi sembrava un po’ azzardato per una raccolta di articoli di giornale, aforismi, reportage e altre cose simili raccolti dal 1990 al 2015); 2) perché mai qualcuno avrebbe dovuto leggere un noiosissimo articolo (identico a un qualsiasi altro pubblicato nei giorni che avrebbero seguito la conferenza da altri giornali) in cui sarebbe stata fatta una minuziosa e precisa descrizione di quanto accaduto? “Sono un genio perché vi metto in imbarazzo” — da un tipo che se ne esce con una frase del genere che cosa bisognerebbe aspettarsi?

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Per le risposte a entrambe le mie domande ho dovuto aspettare il giorno della presentazione, quando Carrère mi è venuto incontro col suo intramontabile piglio da scrittore fico. Sul palco illuminato da una luce fredda tipo frigorifero Bosch anni ‘80, Andrea Bajani (moderatore fuori luogo della serata) cerca di farsi goffamente spazio in mezzo alle caricaturali arie dello scrittore protagonista dello show. Tuttavia, tra voglia di sé (tanta voglia di sé), formali elogi alle sue scarpe rosse e un disincantato citazionismo spiccio che spazia da Dürrenmatt alla nuova serie di divani IKEA, Bajani cita un episodio della vita giornalistica di Emmanuel Carrère, cioè di quella volta in cui, su richiesta di lei, dovette intervistare Catherine Deneuve, volubile e affascinante attrice nonché ambasciatrice dell’UNESCO. Il titolo del pezzo pubblicato era “Come ho completamente cannato la mia intervista con Catherine Deneuve.”

Carrère racconta che quando si sono incontrati lei non lo ha “nemmeno considerato, ero imbarazzato, i contenuti della conversazione erano decisamente poveri, così ho pensato di scrivere il making of dell’intervista. Cosa che la Deneuve ha poi apprezzato molto.” Ora, io non sono certamente Carrère, eppure ho pensato che sarebbe stato quantomeno interessante provare ad incrociare l’attitudine dello scrittore di Limonov, la sua capacità di mostrare le quinte della scena, con la mia necessità di scrivere qualcosa di decente su questa conferenza i cui contenuti, per riproporre un dire di Carrère (in maniera forse azzardata), “erano decisamente poveri”: troppo poco spazio lasciato allo scrittore per far sì che si mostrasse in tutto il suo sardonico e stoico egotismo.

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La mia stima nei suoi confronti di scrittore era già ben consolidata in forza delle grandiose letture che, negli anni, ho avuto modo di apprezzare. Per quanto riguarda lui, come uomo — diciamo che dopo aver saputo della pubblicazione (su Le Monde) di una lettera erotica indirizzata a quella che ai tempi doveva essere sua moglie, in cui venivano indicati tutti i movimenti della stessa durante la giornata con un gioco di suspense amorosa che si sarebbe dovuta concludere in una fragoroso amplesso durante la notte — penso di averlo iniziato ad amare, platonicamente, in quel momento. La lettera è stata poi pubblicata ne La mia vita come un romanzo russo.

Carrère arriva alla conferenza in perfetto orario (20:29 sul mio Samsung): capello rasato, orecchie un po’ a sventola, abito elegante grigio con maglietta scollata stile Terence Hill — mi ha ricordato un vago Scanzi che, al contrario di quest’ultimo, sa di cosa sta parlando. Una voce sottile, pacato ma alla buona, rimane nella stessa posizione (gambe accavallate, la sinistra sulla destra, bloccandosi la circolazione sanguigna per circa due ore) immobile come un drago di komodo: lo vedi e pensi che solo con quella postura avrebbe potuto scrivere le cose che ha scritto.

Tra trapezistici e vuoti sproloqui sul nulla, Carrère parla forse di uno dei temi più delicati del suo lavoro di scrittore: la questione morale con cui, prima o dopo, chiunque si accinga a raccontare il reale deve fare i conti.

Con Carrère è diverso: il suo è sì un racconto di fatti (racconto di fatti in cui rispetta meticolosamente il volere dell’altro come in Vite che non sono la mia, oppure se ne fotte goliardicamente come in Limonov), ma è prima di tutto un racconto di sé stesso, è un guardare il mondo e cogliere fuori di sé il proprio “io,” tentando in qualche modo di plasmare queste forme.

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Carrère, durante la serata, parlando del suo ruolo di scrittore come “reporter del mondo,” spiega come, sotto certi aspetti, con questa raccolta di saggi, abbia tentato di “aprire una porta tra il mondo dell’Emmanuel Carrère scrittore e l’uomo che, ogni giorno, come tutti, si ritrova a fare i conti con le proprie debolezze e fragilità.”

In ogni relazione tra lettore e libro (come già scriveva Gadamer) vi è un rapporto di sincero e dissonante amore: io interrogo il libro e, mosso dalla curiosità, mi ritrovo a instaurare un rapporto con lo stesso, un domandare che si trasforma in un dialogo per “sublimarsi in un viscerale amore per il sapere.”

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Ma in ogni legame che abbia come vincolo spirituale l’amore, forse, devono tornare alla mente le parole di Marcel Proust, cioè che “l’amore più esclusivo per una persona è sempre l’amore per un’altra cosa”. E non diceva la stessa cosa Freud quando affermava che l’atto sessuale è un qualcosa in cui vengono coinvolti quattro testimoni? I due amanti e con loro l’idea che l’uno ha dell’altro (e viceversa). Quando si legge Carrère si leggono Limonov, L’Avversario, Il Regno eccetera, ma si incontra Carrère stesso; e così lui che, quando vede sorgere dal bianco dello schermo le parole, vede anche, in lontananza, l’uomo che le andrà a leggere. Nello sguardo letterario di quest’uomo sembra esserci sempre quel rivolgersi ad altro per trovare sé stessi, un po’ come il protagonista de Il racconto dell’isola sconosciuta di José Saramago: un poveraccio che per capire chi lui sia, dove voglia andare e cosa sia l’amore si rivolge alla ricerca dell’ignoto, che sta certamente fuori dalle mura della città, unico limite spaziale che abbia mai visto sin dalla nascita.

In Emmanuel Carrère c’è un equilibrio, un’armonia sottile e serafica, un oscillare tra il mondo e l’Io.

Se per alcuni scrittori la Verità è un oggetto tra i tanti che se ne sta tra i fatti del mondo, per Carrère rimane qualcosa di intangibile, ed è in forza di questa consapevolezza — cioè dell’impossibilità dell’oggettività — che pone se stesso tra i fatti, si mostra dietro i resoconti giudiziari di Jean-Claude Romand, descrive l’impeto del suo spirito davanti alla Giungla di Calais. “Scrivere dà una forma alla vita,” sussurra piano, cercando di definire la propria posizione di scrittore nel mondo dei fatti e nel mondo delle parole. “Sono egoriferito,” ammette, “volevo costruire un lavoro che permettesse all’altro di entrare nelle pareti del mio studio e comprendere il sottomovimento che sta alla base dei miei lavori di scrittore.”

A scanso di equivoci, devo rispondere alla prima delle due questioni sollevate all’inizio di questo articolo: Carrère non aveva idee per il titolo e, interrogando l’I Ching (antico testo cinese che contiene una serie di oracoli volti a rispondere, potenzialmente, qualora il testo venga interrogato), anziché avere come responso una frase come “cura la vacca che porta la fortuna” — il libro contiene parecchie frasi di questo tipo — si è trovato (per sua fortuna) “propizio è avere ove recarsi.”

Tanta fortuna, oppure ha scelto la frase più figa dell’I Ching. Personalmente sospendo il giudizio a tal proposito, mi basta Carrère.