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La festa della donna nel 2017 è ritornata a essere Giornata Internazionale della Donna, dove il movimento femminista si reinscrive finalmente nel suo senso originario: la lotta politica.

Questo 8 Marzo 2017 è stato un giorno da ricordare, un giorno di semina per ritornare a parlare di diritti e del loro esercizio, un giorno che fa da apripista a una serie di discorsi che non si sono mai esauriti veramente, perché il femminismo oltre a essere una narrazione storica della contemporaneità è prima di tutto un modo per riappropriarsi di sé e tornare a parlare dell’esistenza.

La festa della donna nel 2017 è ritornata a essere Giornata Internazionale della Donna, dove il movimento femminista, che negli anni era sembrato eclissarsi sempre più dietro vuote parate o dietro squallide imitazioni di posticci baccanali maschili (tardive e deprimenti scorie del femminismo infranto, direbbe Houellebecq), si reinscrive finalmente nel suo senso originario: la lotta politica.

L’8 marzo non è una festa di consumo, ma un giorno di impegno civile, in cui è stato possibile ricordare e ricordarsi che nessuna parità è stata raggiunta e che è solo attraverso un atto di protesta che si possono scoperchiare le differenze di cui si nutre la nostra vita sociale.

Come sempre, nei flussi della Storia, sono tanti fatti concomitanti che fanno sì che delle coscienze raggiungano il punto di massima sopportazione e consapevolezza, e si organizzino per provare a riconquistare gli avamposti perduti di una civiltà alla deriva. L’elezione di un Presidente degli Stati Uniti dichiaratamente omofobo e retrogrado; il numero incredibilmente alto di donne uccise ogni giorno (non importa se più basso rispetto al passato, non si possono paragonare degli omicidi a dei punti su un grafico discendente); una Russia che legittima la violenza domestica o una Polonia che delegittima il diritto all’aborto. Tutti questi aspetti di ritorno alla barbarie hanno agito da specchio, e hanno mostrato alle osservatrici e agli osservatori più attent*, come ancora oggi, anche nelle democrazie occidentali, una bambina, una ragazza, una signora o un’anziana, siano ancora considerate prima per il loro genere, e solo dopo come delle esistenze.

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Il genere è sempre stato ordinato in un sistema binario, maschio o femmina, escludendo tutte quelle persone che non si riconoscono in uno dei due poli, ma il genere non è qualcosa che si è, ma qualcosa che si fa, direbbe Judith Butler, ed è importante riconoscere che nel caso delle donne non esiste una “femminilità” data in sé dalla nascita, ma la femminilità è un qualcosa che accade nella crescita e che risponde a un modello culturale; una donna cresce, viene educata, si comporta, parla, si veste e viene giudicata rispondendo a uno schema dato, una convenzione. Intuizione che Simone De Beauvoir aveva ben presente nella celebre frase “donna non si nasce: lo si diventa”, una frase che  esercita ancora oggi il suo potere nel far comprendere che esistono funzioni sociali e convenzioni che fanno di un uomo e di una donna ciò che sono, e che permette, oggi come allora, di parlare di rivalutazione della funzione del genere nella società e dare il via a un movimento di liberazione, liberazione non solo della donna, ma di qualsiasi essere vivente.

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È lo stesso atto di genere che fa della donna un avamposto del maschio, che porta il maschio medio a non riconoscere le discriminazioni che ieri in 55 paesi di tutto il mondo sono state urlate nelle piazze. L’inevitabile conseguenza è che quest’ultimo percepirà, come ha sempre percepito del resto, le “pretese” delle femministe come assurde e fuori luogo, ma il problema ancora una volta è culturale, perché risponde a una convenzione.

Oggi le cose sono diverse rispetto a mezzo secolo fa, è innegabile. Oggi in Italia una donna può chiedere il divorzio, può abortire, può comprare la pillola del giorno dopo, ha il medesimo salario lavorativo degli uomini e non deve più temere il delitto d’onore come atto permesso dallo Stato italiano.

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No, non è proprio così.

Se infatti una donna ha oggi la possibilità di chiedere il divorzio, che è un diritto che va a vantaggio non solo suo (ma anche dell’uomo), non ha la certezza di ottenere un posto di lavoro se dopo qualche tempo dovrà assentarsi per la maternità. Se oggi è possibile comprare la pillola del giorno dopo senza ricorrere a estenuanti passaggi di consenso, non è detto che in farmacia la vendano o che non ti giudichino nel chiederla, nonostante sia chiaro ormai a tutti che si tratta di un metodo contraccettivo e non abortivo. È’ obbligata poi a girare per tutti gli ospedali d’Italia prima di trovarne uno in cui non vi siano obiettori di coscienza che non le permettano di esercitare un suo diritto sancito da una legge dello Stato italiano (certo, lo stesso che fino agli anni 80 permetteva il delitto d’onore) e, se per caso una struttura ospedaliera nel Lazio emette un bando dove chi viene assunto verrà obbligato a eseguire l’aborto qualora venga richiesto legalmente, la libertà di scelta del medico è messa in discussione.

E la libertà di abortire, è solo una cosa da donne?

Queste sono solo considerazioni che emergono con urgenza, ma ve ne sono altre più striscianti e nascoste, come la volgarizzazione continua del corpo femminile, quasi come se lo sguardo sessualizzante fosse la sola lente a disposizione per interagire con una donna, ma anche le battute dette con leggerezza, l’opinione comune che vi siano cose riservate all’uomo di cui la donna non deve sapere, l’idea continuamente incarnata dalla televisione (ma anche dal cinema) che solo una donna di “bell’aspetto” possa apparire in video. Piccole cose quotidiane che  rispondono a un’abitudine ma che gettano nell’insicurezza la donna più comune, che nel migliore dei casi si ribella o fa finta di niente, ma nei peggiori – la maggioranza – cerca di assomigliare a quell’ideale imposto da una coercizione sociale.

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E allora ecco che torna la necessità di manifestare veramente, a Torino, a Milano, a Roma, a Napoli, a Palermo e in tantissime altre città italiane e del mondo, per rispondere a un potere che non si manifesta più imponendo dei dettami, ma che li confonde in mezzo a una presunta libertà, che sa sempre più di spazio libero e sempre meno di partecipazione. Se una volta era pragmaticamente più difficile lottare contro lo sfruttamento, ma era più facile individuarlo, oggi è diventato più facile (non in senso assoluto) poter lottare, ma molto più difficile individuare il malessere. Da qui l’importanza di riflettere su quanto sia terribile l’uso frequente di parole come “puttana,” “donna facile,” “cagna,” “mestruata,” “figa o non figa,” perché le parole hanno un peso quotidiano all’interno delle nostre vite, ci sono parole che vengono normalizzate a forza di essere usate, e finiscono a far parte di un sistema che diventa linguaggio di uso comune. Ci sono parole che tracciano, come ferite, delle differenze. Così come ci sono accorgimenti linguistici che fanno del “l’8 marzo”, “Lotto marzo”, ricordandoci quanto basta poco per essere consapevoli di come si parla, per iniziare a non discriminare a partire dal linguaggio.

Bisogna prendere atto che il mondo è di tutti, motivo per cui qualsiasi movimento che intende parlare di diritti non può non allargarsi al confronto con gli altri esclusi. Per questo è necessario un progetto politico democratico, che tenga conto non solo delle donne, ma di tutte le minoranze escluse da un potere normalizzante che tende a ragionare in maniera binaria, senza tenere conto dell’enorme diversità che popola l’esistenza.