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Benvenuti in un nuovo episodio di Arabeschi

Nell’articolo di oggi parleremo di un termine che suscita profonde discussioni all’interno dell’Islam, ovvero il jihād الجهاد . Passeremo sommariamente in rassegna le più differenti interpretazioni di questo termine, sicuramente, non con l’obiettivo di indirizzare i lettori verso una in particolare ma per dare l’idea della vastità di direzioni intraprese per l’esegesi di questa dottrina religiosa.

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Il termine jihād, etimologicamente, indica “lo sforzo diretto verso un determinato obiettivo.” La radice araba «jhd» indica ‘sforzarsi’, ‘applicarsi con zelo’ e implica una lotta, un impegno sia contro un nemico visibile, sia contro il demonio, sia contro se stessi, in generale, esso presuppone l’impegno verso la religione musulmana.

Si tratta di un concetto basilare del pensiero islamico delle origini, strettamente collegato al principio di universalità dell’Islam, secondo il quale la diffusione di questa confessione ha l’obiettivo di trovare un’adesione universale, se necessario anche per mezzo della forza la quale era, in molti casi, uno strumento necessario, infatti, l’affermazione sempre più diffusa dell’Islam corrispondeva automaticamente alla sottomissione all’Impero Musulmano in espansione e questo creava attrito nel processo di accettazione da parte della popolazione sottomessa (in questo senso, si tratta di un processo comune, per esempio, a quello che ha guidato le Crociate nella storia occidentale); allo stesso tempo, però, questo principio va accostato a quello della tolleranza verso i seguaci delle ‘religioni del Libro’ all’interno della comunità islamica, nella misura in cui essi si sottomettessero all’autorità politica dell’Islam e provvedessero al pagamento delle imposte previste.  Lo jihād, in ogni caso, è considerato uno strumento suppletivo da utilizzare solo nel caso in cui le persone verso cui è diretto siano primariamente state invitate ad aderire all’Islam. Non deve causare danni maggiori di quelli necessari alla resa del nemico. È obbligatorio evitare atti spregevoli ed è fondamentale escludere dai bersagli donne, bambini, anziani e disabili.

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Del ğihād, nel Corano si trovano riferimenti divergenti che la tradizione classifica in quattro categorie: le prime due appartengono al periodo meccano, in cui Muḥammad si dedica all’insegnamento morale e religioso, mentre le ultime due rimandano a quello medinese, nel quale egli, oltre a rimanere la guida religiosa, diviene anche guida politica della comunità islamica. Le suddette categorie sono:

  • Quella che impone il perdono per le offese ed incoraggia ad un atteggiamento pacifico;
  • Quella che impone la lotta solo in funzione difensiva;
  • Quella che impone l’iniziativa d’attacco, all’infuori dei quattro mesi sacri;
  • Quella che impone l’iniziativa d’attacco in modo assoluto, in qualsiasi momento e luogo.

Il principio adottato dalla dottrina per sbrogliare la matassa di interpretazioni divergenti dei testi è il nasḫ النسخ, ‘abrogazione,’ secondo il quale i testi meno antichi invaliderebbero quelli precedenti e contraddittori. Dunque, solo l’ultima categoria viene considerata indiscutibilmente valida. Contestualizzando, invece, il ğihād all’interpretazione tradizionale, ovvero la concreta lotta contro un nemico.

Inoltre, un’altra interpretazione di carattere più prettamente spirituale, apologetica e meno aderente alle vicende storiche narrate nel Corano, riferisce il termine allo “sforzo interiore, ascetico del credente sulla via di Dio,” ossia intende lo sforzo come tensione verso Dio, fede fervente interpretata come lotta contro le tentazioni del mondo peccaminoso, in favore di un aspirazione al divino. Così, si legge lo ğihād come un precetto religioso, prescritto da Dio e volto a diffondere la fede islamica, atto di pura devozione, che favorisce l’accesso al Paradiso. Questa interpretazione, a sua volta, ha dato luogo a due accezioni diverse: una ha portato alla diffusione della pratica del culto dei martiri, morti immolandosi al ğihād, in quanto pronti a dare la vita per la diffusione della fede, mentre quella più moderata considera il ğihād come mezzo pacifico per l’espansione dell’Islam, identificato originariamente con l’attività missionaria dei mercanti.

Infine, un utilizzo innovativo del termine è quello prettamente «para-religioso», usato in contrapposizione non più alle altre religioni ma all’Occidente, con accezione anti-coloniale.

Mai come oggi è necessario conoscere le tante sfaccettature dell’interpretazione del termine ğihād e proprio il dibattuto studio su termini come questo dovrebbero farci comprendere quanto profonda debba essere la conoscenza delle fonti dell’Islam per potervisi orientare al proprio interno.