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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana abbiamo approfondito con Luana Rigolli il significato dei suoi scatti che indagano la natura delle forme riducendole alla loro purezza.


Luana Rigolli vive e lavora tra Mantova e l’Emilia. Ha studiato Ingegneria civile e per questo ha una grande attenzione per i soggetti di architettura e d’interazione dell’uomo con il paesaggio.

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La tua produzione passa dal reportage classico, al lavoro più concettuale, più intimo. I lavori sono presentati in foto singole, dittici, con prefazioni testuali e didascalie spot. È una costante ricerca il tuo lavoro?

I lavori che propongo sono stati sviluppati negli ultimi quattro anni circa, da quando ho iniziato a fare della fotografia una professione e non solo un hobby. Il percorso è a fasi alterne; alcuni mi dicono che dovrei presentarmi bene, che bisogna mantenere una certa omogeneità, ma io sono ancora in fase di ricerca e sto ancora cercando chi sono veramente. Forse è il reportage classico quello che più vorrei fare mio, l’ho capito dopo gli ultimi lavori che ho seguito, soprattutto dopo il mio progetto Villarotta cricket. Inoltre, fino a un anno fa non facevo fotografie a persone — sono timida e non riuscivo ad avvicinarle. Poi, non so bene cosa sia successo, non ho più smesso e ora non riesco a fare progetti senza la presenza umana.

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Un cambio di rotta recente.

Si, proprio a partire dal reportage su Villarotta cricket. È un lavoro che ho sviluppato sin dall’inizio con questa volontà, il risultato finale coincide con le mie idee e aspettative di partenza. Ho seguito i ragazzi per diversi mesi, dalla primavera all’estate del 2016. Prima di questo ho fatto anche un lavoro in Albania e uno in America che anche se sono nati comunque da un viaggio, hanno un origine e una natura differente.

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Hai una formazione ingegneristica e qualche anno di lavoro in questo campo, ma la tua produzione fotografica sembra non essere influenzata da questa tua radice.

Ogni tanto mi dicono che dalle foto si vede che sono ingegnere, ma io sinceramente non riesco a capire perché. Quando me lo fanno presente non so se rimanerci male o meno. Anche perchè sono una persona abbastanza disordinata nelle mie cose — banalmente faccio fatica a tenere le linee dritte nelle fotografie. Non sono convinta di questa possibile associazione tra formazione e produzione artistica sia a livello formale sia nei contenuti, per i temi che tratto, soprattutto ultimamente.

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Hai fatto un lavoro sulle fotografie di Luigi Ghirri. La sua figura ti ha influenzato?

Volenti o nolenti noi emilliani cresciamo influenzati da Luigi Ghirri. Ma anche senza conoscere lui, i paesaggi sono quelli, sono le sue fotografie, te ne puoi rendere conto ogni giorno, lo vedi dalla luce fioca caratteristica. Mentre parlo guardo il paesaggio che sta fuori dalla finestra e non posso che pensare alle sue foto, in qualche modo si ritorna sempre a lui.

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Ghirri come stimolo o come ostacolo alla creatività?

Inizialmente può essere uno stimolo, ma diventa ben presto un ostacolo e in qualche modo bisogna uscirne, abbiamo il dovere di superare la sua figura, noi che siamo venuti dopo. Sai, la luce è rimasta quella, ma il mondo che sta sotto a questa luce cambia: a trent’anni di distanza ci sono nuovi temi da trattare; ci può essere anche qualche analogia formale, ma i contenuti cambiano.

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Il mondo che sta sotto a questa luce ti ha portato, tra gli altri, a ritrarre corpi artificiali, oggetti del quotidiano, coperte da teli.

Tutto è nato qualche anno fa a Lisbona, quando ho scattato la prima fotografia della serie Perdita d’identità. Semplicemente sono rimasta affascinata da un motorino coperto da un telo grigio e da quel momento ho iniziato a notare questi oggetti coperti e sentito l’esigenza di ritrarli, costruendo un progetto.

Perdita d’identità, appunto, che presentiamo. Perchè ti hanno affascinato questi corpi?

La forma della cosa coperta restituisce la forma essenziale, non sei distratto da colori o segni. La forma non la noti se non quando questa viene ridotta nella sua purezza: ti rendi conto dello spazio che occupa e come è posto questo oggetto all’interno del suo contesto.

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Riporto dalla prefazione del progetto: “We deal with these objects like we do with our own body, hidden and protected under clothes.” Perchè tratti questi oggetti come corpi?

Coprire gli oggetti come coprire il nostro corpo, è un’analogia con il corpo, anche noi ci copriamo per nasconderci, proteggerci e per rivelare chi siamo attraverso il modo in cui ci copriamo–vestiamo.

Ad uno sguardo più attento si trovano piccole differenze tra i diversi soggetti: cambiano le distanze, le proporzioni, quanto sono coperti/svelati. E’ intenzionale?

Questo progetto è nato nel momento in cui ho iniziato a scattare in maniera consapevole, ovvero circa tre anni fa. È vero quello che dici, che cambiano le distanze. Queste ultime variazioni fanno parte del mio percorso di crescita, sono sincere ingenuità, così come la presentazione del sito di cui abbiamo parlato prima. Oggi probabilmente rifarei il progetto decontestualizzando i soggetti. Per il Festival di Ferrara l’editing (selezione e sequenza) delle foto è stato fatto anche in base a questa nuova consapevolezza. Porterò alcune fotografie del progetto che non ho ancora mostrato, sarà una sorpresa.

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Fai parte del collettivo diecixdieci, che organizza il festival di fotografia di Gonzaga. Cosa significa per te partecipare ad un festival?

Sicuramente tanta felicità per essere stata selezionata, si tratta del mio primo festival, ma anche curiosità nei confronti dell’organizzazione generale. Curando un festival sicuramente posso imparare cose nuove, stando dall’altra parte ho ricevuto nuovi spunti e stimoli.