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Il presidente del Consiglio Europeo Tusk ha annunciato di voler chiudere la rotta Libia-Italia per fermare l’immigrazione irregolare: è l’ultimo atto dell’ipocrisia europea sulla pelle dei migranti.

Durante una conferenza stampa congiunta con il premier libico Fayez Sarraj, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha annunciato oggi che “l’Unione europea chiuderà le rotte irregolari dell’immigrazione,” riferendosi, nello specifico, alla rotta Libia–Italia — preferenziale per la quasi totalità dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana e diretti in Europa.

Fayez Sarraj, in realtà, è premier soltanto di uno dei due governi che in questo momento si contendono il controllo dell’ex feudo di Gheddafi. È il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale e con particolare calore dall’Italia, che è stato il primo paese occidentale a riaprire l’ambasciata nella vecchia capitale coloniale. Ma l’appoggio sempre più esplicito della Russia al governo di Tobruk e al suo braccio armato, il generale Haftar, fa pensare che la soluzione alla crisi libica sia tutt’altro che vicina, e le strette di mano tra i capi di stato europei e il premier Sarraj — sempre in funzione anti-migranti — potrebbero essere avventate.

È significativo che, nella stessa conferenza stampa, Tusk abbia aggiunto Donald Trump a una lista di minacce per l’Unione Europea che comprende Russia, Cina e il cosiddetto Stato Islamico. Eppure, quando si tratta di respingere rifugiati alle frontiere, le politiche dei governi europei non sono poi così distanti da quelle del neo-presidente statunitense, se si eccettuano i toni più dimessi e le facce pulite.

A pochi giorni dall’ordine esecutivo che ha chiuso temporaneamente le porte non soltanto a qualsiasi viaggiatore proveniente da Iraq, Iran, Sudan, Yemen, Siria, Somalia e Libia, ma anche a tutti i richiedenti asilo, a prescindere dalla loro provenienza — e a questi si aggiungono ora i rifugiati deportati dall’Australia nei centri di detenzione off-shore — il rinnovato auspicio europeo di fermare il flusso di migranti dall’Africa tocca vari livelli di bis-pensiero.

Il primo, più desolante, è quello che riguarda le finalità “umanitarie” con cui si ammantano questo genere di soluzioni: come ha scritto Tusk su Twitter, “è tempo di chiudere la rotta dalla Libia all’Italia. Lo dobbiamo a coloro che soffrono e rischiano la propria vita, tanto quanto all’Italia e all’Europa.”

Parafrasando: aiutiamo chi rischia la vita per fuggire dal proprio paese obbligandolo a rimanerci — a meno che il Mediterraneo non sia pieno dei cadaveri di migliaia di persone che hanno scelto di rischiare la vita, così, per capriccio. E, in qualche modo, questo pensiero riesce a coesistere con la consapevolezza delle violenze che i migranti sono costretti a subire nei campi profughi libici, e con l’indignazione contro i loro aguzzini, quando capita che siano catturati.

Ma il nucleo della contraddizione è nella definizione stessa di “immigrazione irregolare” — tornata di moda anche dopo l’abolizione del giustamente infamato reato di clandestinità voluto dalla coppia Bossi-Fini. Anche soltanto per conseguenza logica, il termine presupporrebbe l’esistenza di un canale “regolare” di immigrazione — che, però, non esiste. Le persone che provengono dall’Africa subsahariana — Somalia ed Eritrea soprattutto — o dalla Siria, che hanno buone probabilità di vedersi riconosciuto il diritto d’asilo, non hanno modo di chiedere un visto nel proprio paese, e quindi non hanno i documenti che consentirebbero loro di viaggiare in modo sicuro — per esempio prendendo un aereo, che costerebbe comunque meno della traversata del Mediterraneo — e, soprattutto, senza mettersi nelle mani dei trafficanti e della criminalità organizzata.

Questo tipo di politica — ipocrita al massimo grado — ricorda quella messa in atto dagli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati cubani dal 1995 a quest’anno: se riesci a mettere piede sul suolo statunitense, potresti vederti riconoscere lo status di rifugiato; se affoghi durante la traversata, peggio per te. La si chiamava, informalmente, politica del “piede asciutto, piede bagnato.”

La situazione, in Europa, è lievemente migliorata dopo l’introduzione di Mare Nostrum e dei programmi di soccorso in mare che l’hanno sostituito — nel senso che, perlomeno, i rifugiati intercettati in mare non vengono rimandati a casa, almeno non subito — e più ancora grazie all’intervento capillare delle organizzazioni umanitarie attive a poche miglia dalle acque territoriali libiche. Ma questo non ha impedito che il 2016 fosse l’anno peggiore per il bilancio dei morti nel Mar Mediterraneo, e sono tutti sulle spalle dei governi europei. La chiusura delle frontiere libiche servirà soltanto a spostarli un po’ più in là.