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Il secondo turno delle primarie del Partito Socialista francese si è concluso con la vittoria di Benoît Hamon, con una percentuale che sfiora il 60%, e un’affluenza superiore del 23% rispetto al primo turno.

Soprannominato le frondeur — il frondista — Hamon aveva vinto al primo turno con il 36% dei voti. Ministro dell’Economia sociale e solidale dal 2012 al 2014 e poi, per pochi mesi, Ministro dell’Istruzione, la sua vittoria è un ulteriore schiaffo di commiato alla presidenza di François Hollande, il cui Primo ministro Manuel Valls, candidandosi alla successione, aveva pochissime chance di incarnare un’istanza di cambiamento credibile.

https://twitter.com/manuelvalls/status/825798155044274179

Proprio Valls, infatti, ha messo la faccia su alcuni dei provvedimenti che hanno reso questo governo — da lui presieduto a partire dal 2014 — particolarmente inviso all’elettorato, come la famigerata Loi travaille — approvata bypassando il Parlamento — e lo stato d’emergenza, in vigore da oltre un anno, che si è tradotto essenzialmente in una sistematica e violenta repressione del dissenso e una vessazione per la minoranza musulmana del Paese.

Si parla spesso del fallimento dei socialdemocratici in tutto l’emisfero occidentale, ma il caso di François Hollande ha le doti di esemplarità che gli permetteranno di entrare nei libri di storia: eletto nel 2012 tra il giubilo di tutti i progressisti europei, con la promessa di spezzare le maglie dell’austerità e imprimere un nuovo corso all’Unione Europea, Hollande è il primo presidente della storia francese a non ricandidarsi per un secondo mandato, uscendo di scena dopo aver portato se stesso e il proprio partito a un minimo storico di popolarità.

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Tanto che, nonostante l’appartenenza di Hamon all’ala più a sinistra del partito, secondo i sondaggi i socialisti hanno minime probabilità di superare il primo turno delle elezioni presidenziali, che si terranno il 23 aprile. Il partito potrebbe anche spaccarsi, con l’ala centrista attratta dalla piattaforma apartitica e programmaticamente post-ideologica di Emmanuel Macron, ex Ministro dell’Economia di Hollande, in popolarità crescente. Lo stesso Valls ha dichiarato che accetterà lealmente l’esito delle primarie, ma non potrà sostenere attivamente il progetto politico di Hamon, che comprende una forma di reddito universale e una decisa riconversione ecologica dell’industria nazionale.

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Lo scandalo in cui è rimasto inguaiato il candidato dei repubblicani François Fillon — accusato di aver assicurato indebitamente uno stipendio da assistente parlamentare alla moglie — fa apparire più probabile lo scenario di un ballottaggio Le Pen versus Macron, anche se Fillon non sembra avere intenzione, per il momento, di lasciare la corsa. Sarà da vedere, in quel caso, se si ripeterà la mobilitazione alle urne di quel “fronte repubblicano” che nel 2002 scongiurò la vittoria del Front National convergendo su Jacques Chirac. Un’eventualità su cui molti fanno affidamento, sondaggi alla mano, ma che non andrebbe data troppo per scontata, dato che il criterio del voto al “meno peggio” — molto noto anche al di qua delle Alpi — non ha mai dato all’elettorato di sinistra risultati apprezzabili.

Macron è dotato di carisma ed è forte di una retorica anti-establishment che — per quanto poco credibile da parte di un ex banchiere d’affari per Rotschild ed ex Ministro — sembra portargli fortuna. Qualcuno l’ha definito “un Beppe Grillo che veste Giorgio Armani,” e secondo un sondaggio di metà gennaio è in testa alla classifica per ordine di popolarità dei leader. Ma dal suo programma politico — indefinitamente liberale e europeista — è difficile aspettarsi qualcosa di rivoluzionario.

Sulle ragioni del fallimento socialista c’è un consenso ampiamente condiviso: l’adesione cieca a politiche di marca neo-liberista, non controbilanciate da adeguate misure di welfare a sostegno dei più deboli, si è rivelata un abbraccio mortale, che ha definitivamente alienato al centro-sinistra — sempre meno distinguibile dal centro-destra — il supporto delle masse lavoratrici più duramente colpite dalla crisi economica. Mentre le destre liberali “tradizionali” reagiscono all’emorragia di voti abbracciando i toni e la retorica dei nazionalisti, le sinistre si sono trovate a ricoprire i ruoli più impopolari: la “responsabilità,” i governi lacrime-e-sangue, i sacrifici, i compromessi, in nome di un sistema che continua a perdere pezzi.

Ma se questa spiegazione lineare è abbastanza chiara e logica, meno chiare sono le ragioni: perché i partiti socialdemocratici si ostinano a seguire una ricetta che ovunque ha dato prova di essere fallimentare? Si tratta soltanto di ottusità? In un’intervista rilasciata a settembre a Le Débat, François Hollande ha detto che è sempre facile e bello essere di sinistra all’opposizione, mentre al governo è impossibile essere socialisti se si è isolati. “Ciò che è in gioco è se la sinistra, piuttosto che il socialismo, ha un futuro nel mondo, o se la globalizzazione ha ridotto o perfino annichilito questa speranza.”

Alexis Tsipras
Alexis Tsipras

Immediatamente viene da pensare al caso di Alexis Tsipras e di SYRIZA, l’esempio più doloroso di un governo di sinistra costretto a tradire clamorosamente il proprio mandato. Ma la Grecia è un paese piccolo, commissariato dai creditori internazionali ben prima che SYRIZA ottenesse il governo, con scarsissimo potere negoziale. Diverso è il discorso per Francia, Germania, Regno Unito. È bene ricordare che le politiche dell’Unione Europea — additata, non a torto, come principale ostacolo alla formulazione di una risposta sociale alla crisi — sono ancora determinate dagli orientamenti dei governi nazionali. Da parte dei socialisti è mancata la volontà di farsi carico di un vero cambio di paradigma.

“Questa sera la gauche ha risollevato la testa,” è stato l’annuncio di Hamon dopo la vittoria. Ma la ricostruzione di un consenso solido non sarà facile, né breve. Mentre si sprecano i paragoni con Sanders e Corbyn, alla sinistra dei socialisti un altro candidato alla presidenza sta cercando di guadagnare il favore dei delusi da Hollande: è Jean-Luc Mélenchon, leader del Parti de Gauche, che alle elezioni del 2012 si era piazzato quarto, con l’11%.
Hamon ha subito proposto a Mélenchon e al candidato dei verdi Yannick Jadot un’alleanza “di governo,” che è forse l’unica speranza per il Partito Socialista di sopravvivere (sempre che l’ala centrista del partito riesca a digerirla). Le trattative sono appena iniziate: Mélenchon ha in parte addolcito i toni inizialmente scettici, mentre una prima risposta di Jadot è attesa in mattinata. Un eventuale accordo fra i tre leader potrebbe essere l’occasione di dimostrare che l’unica risposta possibile alla destra radicale — nativista e xenofoba — è una sinistra radicale aperta e inclusiva.


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